Di
Monica Vistali (mensile Nexus - settembre) - In pochi anni, tra momenti di stasi e grandi ondate migratorie, la comunità italiana è diventata una tra le più grandi del Venezuela. Oltre che per la sua superiorità numerica, la nostra si distingue per essere una tra le Collettività italiane più organizzate al mondo, con una trentina di sodalizi sparsi in tutto il territorio nazionale.
Purtroppo non è tutto oro quel che luccica. I Centri italo-venezuelani e le Case d’Italia, che nei sogni dei loro fondatori dovevano essere luoghi di riunione per tutti gli italiani ed espressione di una collettività multiclassista, si sono trasformati nel tempo in ‘ghetti sociali’ a cui - per ragioni economiche - può accedere solo una piccola fetta della nostra comunità: quella che costituisce la classe medio/alta e che dispone delle risorse economiche sufficienti per acquistare un’azione e coprire le spese mensili che questa rappresenta. Inoltre, le facilitazioni create per favorire l'accesso ai nostri club alle nuove generazioni (che insieme agli anziani sono le fasce più castigate), sono dirette esclusivamente ai figli e alle figlie dei soci-proprietari, e rafforzano quindi la struttura classista che caratterizza i sodalizi.
Ma i nostri centri dovrebbero distinguersi dai circoli esclusivi e dalle associazioni d’elité: dovrebbero essere punti di riferimento culturale e di conservazione dell'italianità, aperti al maggior numero di persone possibile per permettere la più ampia promozione della nostra lingua, della nostra arte, dei nostri prodotti. Insomma, della nostra cultura. Questa dovrebbe essere la loro filosofia, il loro scopo, il loro valore aggiunto. Dovrebbe esserlo soprattutto nell'attuale congiuntura storica, con le nuove generazioni che stanno perdendo i legami con la loro terra d'origine e con l'Italia che attraversa una grave crisi economica, alla cui soluzione contribuirebbe certamente la promozione del made in Italy all'estero.
Ma come raggiungere quest’obiettivo se non abbattendo le discriminanti barriere economiche d'accesso che acutizzano ogni giorno di più il profilo elitario dei nostri sodalizi? Come rendere giustizia alla mission dei nostri club se non adottando una struttura solidaria basata sull'accettazione e orientata all'apertura?
1964: nasce il primo Civ
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Civ Guayana |
Dagli anni Trenta agli anni Sessanta, gli italiani in Venezuela si sono moltiplicati fino a raggiungere un numero fino a quel momento impensabile per i fondatori della prima “Casa d’Italia”. Il vecchio sodalizio - così piccolo da essere paragonato dall’artista Giorgio Gori ad un barattolo “per uomini-sardina” - inizia a non rispondere più alle esigenze di una collettività in espansione sia dal punto di vista demografico che sotto un’ottica economica, con bisogni ed interessi diversi rispetto a quelli della
vecchia elité di pionieri, una sorta di 'borghesia illuminata' interessata ai soldi e alle belle arti. Ma la “Casa d’Italia”, quando nel 1958 è obbligata a lasciare la sua sede a
Los Caobos perché espropriata dal governo, opta ancora una volta per un edificio di dimensioni relativamente ridotte, quello attuale lungo la
Avenida Urdaneta di Caracas.
I nuovi arrivati, a cui non è permesso accedere alla “Casa d’Italia”, decidono quindi di creare uno spazio parallelo e più in sintonia con i loro gusti e le loro necessità: un po’ meno cultura, quindi, ma più aree per le attività ricreazionali e tanto spazio verde per lo sport. Un luogo di riunione e di svago aperto a tutti, multiclassista, dove ritrovarsi tra compaesani e respirare un po’ di aria di casa, consolidando contemporaneamente i vincoli tra il Paese di origine e quello di accoglienza. Insomma: un centro italo-venezuelano.
Il “Centro Italo-Venezolano” di Caracas, il primo nel suo genere, nasce il 26 marzo 1964 a Prados del Este, al tempo una zona appartata dalla città, in uno spazio aperto che permette sin dall'inizio l'ampliamento della struttura e quindi la possibilità di accogliere un sempre più grande numero di connazionali.
Una volta innalzato l’edificio sede, la prima preoccupazione dei fondatori è la realizzazione dei campi sportivi e delle piscine, ma nel tempo vengono costruiti giardini, piazze, statue, terrazze, ristoranti, palestre cui si aggiungono l’edicola, il parrucchiere, il minimarket, l’ambulatorio, la biblioteca, la piccola cappella. Al suo interno si organizzano eventi di ogni genere - tornei, feste regionali, incontri di solidarietà, spettacoli - e si offre ai soci la possibilità di frequentare corsi di italiano, di teatro, di sport.
L’entusiasmo per l’iniziativa è tale che sulla scia del pioniere capitolino in poco tempo si moltiplicano i sodalizi italiani sul territorio: nel 1965 nasce la “Casa d’Italia” di Maracay, due anni dopo il “Club Italovenezuelano” di Barinas, nel ’70 la “Casa d’Italia” di Maracaibo. Un proliferare continuo che arriva sino ai nostri giorni: oggi si contano infatti 30 sodalizi sparsi in tutto il Venezuela, dai grandi centri urbani quali Merida, Valencia, Puerto Ordaz, Barquisimeto e Puerto Cabello fino alle piccole città come Cagua, Los Teques, San Felipe, Ciudad Ojeda, Carupano, Upata. Una realtà unica non solo in America latina, ma nel resto del mondo.
Quali italiani?
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Nei Centri italo si celebrano concorsi di bellezza |
Oggi il Civ di Caracas si erge maestoso sulla cima di una collina, ritagliando i suoi eventi di lusso e le sue cerimonie sullo sfondo di un agglomerato urbano ed umano che si snoda polveroso tra baracche fatiscenti e mercati improvvisati: il
barrio (zona popolare) di
Santa Cruz. Le sue piscine olimpioniche e le sue aiuole ben rifinite, così come gli appassionati del tennis ed i camerieri eleganti che serpeggiano tra i tavoli durante le cene di gala organizzate dal club, si stagliano in una cornice di casette di mattoni ed umili
bodegas, con venditori ambulanti dalle merci colorate, motociclette rumorose, ragazzi che si canzonano per strada con la canotta sulla spalla. Il contrasto tra le due colline è netto. Ma quanti cognomi italiani non oltrepassano quella strada poco illuminata che separa l’“
Italo”, come viene chiamato il Civ dai più affezionati, dal
barrio?
Nei fatti, oggi il “Centro Italiano Venezolano” di Caracas aggrega solo una fetta della nostra comunità: un target ben delineato che non si mescola con quel 15 per cento (e forse più) di italiani che vivono nei quartieri umili di Petare, zona tra le più degradate e pericolose della capitale ma anche parroquia con la percentuale più alta di connazionali secondo il censo pubblicato dall’Instituto Nacional de Estadìsticas nel 2005. A frequentare l’“Italo”, quindi, sono principalmente gli italiani e gli italo-venezolani più fortunati: quelli che, secondo il ministero degli Esteri, controllano un terzo di tutte le industrie locali, escludendo naturalmente quelle collegate al settore petrolifero.
Le ragioni di questa chiusura, prettamente di natura economica, sono facili da illustrare: per avere accesso al Civ di Caracas è necessario essere soci-proprietari del club - ossia acquistare un’azione il cui costo oscilla tra i 55 e i 60 mila bolivares, cui si deve sommare una tassa di 18 mila bolivares - e pagare mensilmente una quota di 530 Bsf più Iva, cui si aggiungono puntuali le ‘quote straordinarie’ per eventi, riparazioni o miglioramenti del club che sorpassano le possibilità economiche dello stesso. Quote-extra destinate a spese speciali che possono trasformarsi anche in permanenti, come accadde in passato. Una volta soci, poi, è naturale iscriversi a qualche corso: e via con altre spese.
Le stesse condizioni si ripresentano prendendo in considerazione gli altri sodalizi: il “Centro Social Italo Venezolano de Merida” richiede un’azione da 50 mila BsF e 15 quote annuali da 168 BsF l’una; il “Centro Italo Venezolano del Táchira”, a San Cristobal, pretende un’azione di 35 mila BsF e 260 BsF mensili; il “Centro Social Italo Venezolano de Valencia” un’azione da 50 mila BsF e una quota di 388 BsF al mese; la “Casa d’Italia” di Maracay un’azione da 45 mila BsF e circa 300 BsF mensili.
Queste cifre rappresentano un ostacolo insormontabile per i connazionali meno abbienti: oggi, in Venezuela, lo stipendio minimo è di 1.780 bolivares e servirebbero quindi, prendendo l’esempio del Civ di Caracas, ben 41 stipendi completi per comprare un’azione ed ogni mese quasi un terzo del salario per coprire le quote. Volenti o nolenti, c’è una barriera fissa. E a causa di questa i meno fortunati devono accontentarsi di guardare dal basso le siepi fiorite, i salon de fiesta e le infrastrutture sportive che, si sognava un tempo, dovevano essere accessibili a tutti gli italiani del Venezuela.
- A frequentare i nostri club sono principalmente famiglie di classe medio-alta - ammette Mariano Palazzo, ex presidente della Casa d'Italia di Maracay ed oggi presidente di Faiv, la federazione che aggrega tutte le associazioni italo-venezuelane - perché sono pochi quelli che possono far fronte alle spese.
Una realtà confermata dai responsabili dei club di Merida, di Valencia, di Caracas... i quali ci tengono però a sottolineare come in caso di necessità si permetta il pagamento dilazionato dell'azione, con rate fino a 18 o 24 mesi. Come se questo bastasse.
Pionieri e nuove generazioni
Se dai nostri club sono di fatto escluse le famiglie con entrate minime o poco superiori al minimo, anche per quanto riguarda l
a classe media l’accesso ai sodalizi è nei fatti proibitivo e le fasce più castigate sono i giovani ed i pensionati.
I primi perché non ricevono uno stipendio che permetta loro di affrontare l’aquisto di un’azione e la spesa mensile che questa rappresenta e, se hanno la fortuna di riceverlo, hanno - e come dargli torto - altre priorità: una casa, un’automobile, un fondo di risparmi per assicurarsi un futuro. Tutto questo se ancora non hanno formato una nucleo famigliare e non sono chiamati a rispondere alle grandi spese che implica l’arrivo di un figlio. I secondi, invece, perché con una pensione si possono fare solo miracoli. E questi non comprendono i costi di gestione dell'azione di un club.
I nostri sodalizi si dimenticano quindi non solo di chi ha avuto meno fortuna e che andrebbe comunque messo in condizione di accedere ai centri, ma si dimenticano anche del “futuro” della nostra Collettività e, quel che è più grave, del "passato".
Ma i giovani non sono tutti uguali. E, paradossalmente, i più avvantaggiati nel sistema di accesso sono proprio quelli delle famiglie accomodate già proprietarie di un'azione. Maggiorenni che, conclusi gli studi, non rientrano più nel nucleo famigliare del socio e perdono quindi la possibilità di accedere al sodalizio.
Al "CSIV" di Valencia i figli dei soci hanno la possibilità di comprare azioni speciali con uno sconto del 50%, acquisendo in questo modo quasi tutti i diritti del socio regolare (non possono accedere alla carica di Presidente del club e non possono invitare al sodalizio i non-soci, con l’eccezione del fidanzato/a) mentre alla “Casa d’Italia” di Maracay, oltre alla figura amministrativa dell’azione "figlio di socio" (acquisto con il 50% di sconto da pagare anche a rate, ma con una clausula che obbliga all’acquisto di un’azione regolare nel caso che il genitore venda l’azione) è stata creata anche l’opzione “affiliazione del primogenito" (o "del parente immediato") che permette l’acquisto di una azione speciale al prezzo stracciato di 1000 BsF, che però non contempla il diritto di voto alle assemblee né la possibilità di assumere cariche dirigenziali.
È quindi vero che sono state create facilitazioni per favorire alle nuove generazioni l'accesso ai nostri club. Ma si tratta di facilitazioni che, essendo dirette esclusivamente ai figli e alle figlie dei soci-proprietari, ripropongono la struttura classista che caratterizza la maggioranza dei sodalizi.
Ma i nostri Centri Italo Venezuelani, le nostre Case d’Italia, non dovevano essere luoghi di riunione per tutti gli italiani? Il Civ di Caracas, nei sogni del suo fondatore Lorenzo Tomassi, non doveva essere espressione di una Collettività multiclassista?
Solidarietà: elemosina o apertura?
I nostri club non hanno dimenticato in toto i connazionali meno fortunati. Al loro interno si realizzano infatti eventi puntuali di solidarietà finalizzati alla raccolta di denaro da destinare ai bisognosi, oriundi spesso anziani e malati che ogni mese fanno la fila allo sportello dell'assistenza sociale del Consolato per le medicine o che, nella capitale, un giorno alla settimana trovano un piatto caldo grazie alla ammirevole missione portata avanti da un gruppo di signore italiane nella Chiesa "Nostra Signora di Pompei".
Si promuovono anche iniziative solidali dirette alle persone di umile estrazione sociale che vivono nelle zone circostanti. Nel suo giorno di chiusura, per esempio, il Civ di Caracas concede gratuitamente ai bambini di Santa Cruz l'utilizzo di alcune istallazioni e, stando a quanto dichiarato dall'attuale presidente Pietro Caschetta, sono state attivate con il Consejo comunal strategie di reciproca collaborazione: il Consejo comunal si impegna a controllare che alcuni malintenzionati non violino le entrate del Centro e quest'ultimo fornisce assistenza materiale in caso di bisogno (durante l'epoca delle alluvioni sono state fornite buone quantità di cemento per la ricostruzione e messi a disposizione alcuni macchinari). Inoltre, si accettano nelle squadre sportive gli atleti più meritevoli della zona, a titolo gratuito. Iniziativa, quest'ultima, che ha suscitato non pochi atteggiamenti discriminatori e razzisti in alcuni soci, racconta Caschetta.
Il "Centro Italo Venezolano del Táchira", dal canto suo, affitta le sue piscine al Comune, che a costo zero le mette a disposizione ad anziani e bambini.
Si tratta innegabilmente di azioni lodevoli, che però sono molto rare, puntuali, e in alcun modo abbattono la rigida impostazione esclusiva che caratterizza i nostri club. Se non accompagnate da un cambio radicale nella filosofia e nella gestione dei sodalizi, queste iniziative rischiano di rappresentare sporadica elemosina, non una struttura solidaria basata sull'accettazione e orientata all'apertura dei nostri club.
Club d'elité
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Sport in un Civ |
Nei nostri centri aggregativi, gli italiani hanno la possibilità d’incontrarsi l’un l’altro in un luogo elegante e tranquillo ma, soprattutto, sicuro.
Come spiegava tempo fa alla ‘Voce’ un socio di vecchia data del Civ capitolino, Angelo Cristillo, all'"Italo" si può “passeggiare sereni senza doversi guardare alle spalle”. E l’amico Alessandro Sansone annuiva, confermando che lì “si cammina tranquilli, mentre in strada è una giungla”.
E così, paralizzati dal pericolo delle rapine e dei sequestri di cui spesso sono vittime, gli italiani finiscono per rinchiudersi sempre più in queste campane dorate che sono i nostri centri, con la convinzione che “qui in Venezuela la tua vita è un diamante che non puoi indossare e non sai dove nascondere. Nell’“Italo”, invece, puoi dare gas a quella Cadilac che per strada non puoi usare. Perchè fuori, il Latinoamerica è e resta sempre il Latinoamerica”, come chiosava un altro socio con forte accento campano.
La generale sicurezza che offrono i sodalizi italiani è una delle principali ragioni che spinge i soci a frequentare regolarmente i club, ma il vero punto di forza è lo sport. Nella maggior parte dei casi, infatti, i nostri centri offrono invidiabili strutture sportive per il nuoto, il calcio, il tennis, il karate, la ginnastica e tanto altro ancora. Ci sono poi i “Giochi Sportivi Nazionali” organizzati da Faiv, cui partecipano dai tre ai quattro mila atleti (se a questi sommiamo parenti, amici e conoscenti arriviamo anche a dieci mila persone in una sola città, dato che converte l’evento in una delle più importanti manifestazioni sportive del Paese).
Ma un discreto livello di vigilanza e buone istallazioni per lo sport - da pagare a caro prezzo, come abbiamo visto - non dovrebbero essere il principale polo attrattivo dei centri italo-venezuelani. Per questo ci sono l'"Altamira tennis club" capitolino e i "Country Club" sparsi in tutto il Venezuela. I nostri sodalizi dovrebbero essere soprattutto importanti punti di riferimento culturale e di conservazione dell'italianità, aperti al maggior numero di persone possibile (italiani e stranieri) per permettere la più ampia promozione della nostra lingua, della nostra arte, dei nostri prodotti. Insomma, della nostra cultura. Questa dovrebbe essere la loro filosofia, il loro scopo, il loro valore aggiunto. Dovrebbe esserlo soprattutto nell'attuale congiuntura storica, con le nuove generazioni che stanno perdendo i legami con la loro terra d'origine e con l'Italia che attraversa una grave crisi economica, alla cui soluzione contribuirebbe certamente la promozione del made in Italy all'estero.
Ma come raggiungere questi obiettivi se non abbattendo le discriminanti barriere economiche d'accesso che acutizzano sempre di più un sistema decisamente elitario e che rischiano di trasformare i nostri sodalizi in 'ghetti' sociali?
Non c’è Giunta Direttiva che, al momento di proporre la propria candidatura, non manifesti l’intenzione di trovare soluzioni eque che permettano di aprire i nostri centri alla Collettività. Promesse, sempre promesse. Al dunque, però, il panorama non cambia. Migliorando ed ampliandosi nel tempo, i nostri sodalizi sono diventati dei 'giganti' difficili da mantenere; luoghi accessibili esclusivamente ad una classe sociale medio-alta, l'unica con le possibilità di sostenere costi che crescono giorno dopo giorno e che sopratutto oggi - a 'boom petrolifero' concluso - incidono non perifericamente nell’economia delle famiglie.
Certamente per i club le spese sono aumentate, per le necessità di mantenimento di spazi sempre più ampli ma anche per quella che Mariano Palazzo chiama la "pressione riguardo alla manodopera": il riconoscimento, da parte del governo venezuelano, dei diritti dei lavoratori ha fatto sì che i nostri sodalizi abbiano dovuto mettere in regola giardinieri, camerieri, personale amministrativo, addetti alla sicurezza e alla pulizia. "Prima non c'era tutta questa struttura di riconoscimento e quindi non spendevamo tanto" spiega Palazzo, raccontando che molti impiegati erano in nero e non avevano le garanzie economiche di cui godono oggi.
Un aumento delle spese, soprattutto se unito ad una cattiva gestione, significa com'è ovvio un aumento dei costi per i soci e quindi un rafforzamento del carattere elitario dei centri. Ma, per esempio, il "Centro Social Italo Venezolano de Valencia" ha recentemente investito 5,5 milioni di bolivares per sua la piscina e speso 1 milione per innalzare una 'Piazza dell'emigrante'. Idea interessante, quest'ultima, ma che da sola sarebbe bastata a pagare l'azione del club a 20 connazionali. Un omaggio all'immigrazione italiana forse più valioso.
Una questione di volontà
La conversione dei nostri sodalizi in club esclusivi è una realtà che rischia di diventare immutabile se non si realizza un radicale cambio di rotta nella visione e nella mission dei nostri centri. È una questione di volontà, dobbiamo scegliere.
Vogliamo che i nostri sodalizi restino strutture di lusso per pochi opulenti o vogliamo provare ad aprirci a tutti i connazionali?
Riteniamo più giusto - e più urgente - dare spazio a venezuelani, cinesi, portoghesi ed arabi dal portafoglio gonfio che si rivolgono a noi attratti dalle nostre belle piscine (quando il "Country Club" di Maracay ha chiuso i battenti, i vecchi soci si sono riversati in massa alla "Casa d'Italia") o permettere l'ingresso anche agli italiani più umili a cui, magari, piacerebbe frequentare le biblioteche con i volumi nella lingua di Dante, godere di un concerto di musica napoletana o di una commedia di Goldoni?
Siamo coscienti dell'importanza che assumerebbe, per la promozione della nostra lingua e della nostra cultura, l'apertura dei Civ e delle Case d'Italia ai tanti alunni venezuelani che studiano l'italiano? La promozione e l'accesso ai materiali e agli eventi culturali?
Un'apertura in questo senso non significherebbe necessariamente un'offerta più modesta da parte dei nostri club. Abbattere i costi d'accesso aumenterebbe infatti il numero di soci mantenendo invariate le entrate nelle casse gestite dai tesorieri. Mettere a disposizione gratuitamente le biblioteche e permettere l'entrata libera a tutti gli eventi culturali, migliorerebbe certamente la nostra immagine e renderebbe giustizia all'obiettivo che i sodalizi dicono di proporsi: essere luoghi aperti a tutti gli italiani.
Il cammino sarà pieno di ostacoli, perché all'interno della cosiddetta 'Collettività organizzata' la disponibilità al cambiamento sembra essersi atrofizzata e il profilo classista palesato nel tempo dai nostri centri aggregativi - ma anche dalle nostre scuole - ha rafforzato nelle seconde e terze generazioni una tendenza reazionaria e conservatrice. I giovani hanno potuto accedere ai club e agli istituti italiani solo grazie al denaro dei loro genitori, denaro che si fatto simbolo di potere, di uno status che proprio nell'appartenenza ai nostri sodalizi ha la possibilità di rivelarsi. Perché, si chiedono in molti, abbandonare una realtà che mi ha sempre favorito?
Ma non dimentichiamo che siamo stati capaci, grazie alla determinazione di cui tanto andiamo orgogliosi, di creare una rete di centri italiani maestosi, unica nel mondo. Come ieri, anche oggi tutto dipende dalla nostra volontà. Vogliamo davvero l'apertura dei nostri club alla Collettività? O la consideriamo una 'caduta di stile'? Qual è il nostro obiettivo? Il dibattito è aperto.