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mercoledì 20 gennaio 2010


IL GENOCIDIO INVISIBILE
di Silvano Agosti

Il pianeta Terra viene definito “pianeta azzurro” perché, nell’insieme degli universi conosciuti, è il solo a ospitare il mistero della vita. E’ circondato da una luminosità azzurrina che testimonia, appunto, lapresenza nell’atmosfera e sul pianeta, degli elementi necessari alla vita. Etere, Aria, Fuoco, Acqua, Terra. Ospita il mistero della vita o, per ora, solo l’incognita dell’esistenza? Questo interrogativo si pone rispetto all’insieme degli esseri viventi. Tuttavia l’essere umano sembra essere il solo animale capace di essere cosciente della propria storia, disposto ad ascriversi in esclusiva il privilegio della vita e ponendosi al vertice della scala biologica. Nell’attuale cultura, tuttavia, non si parla mai della vita e delle sue caratteristiche di diversità qualitativa nei confronti della semplice esistenza. La vita sembra non essere argomento di alcuna ricerca, o di confronto o di progetti immediati. Anzi, quando qualcuno tenta di ricordare ai propri simili la grandezza del vivere viene quasi sempre eliminato, Socrate, Gesù Cristo, Spartaco, Martin Luther King, Giordano Bruno, Gandhi…

LA FRANTUMAZIONE DELL’ESSERE UMANO
Né mai ci si riferisce, nelle rivendicazioni o nei propositi di riscatto sociale, all’essere umano in quanto tale. Si preferisce un percorso settoriale parlando di diritti degli operai, degli ammalati, dei prigionieri, delle massaie, dei giovani etc. In realtà, se ci si riferisse semplicemente ai diritti dell’essere umano e si elaborasse un progetto affinché questi diritti venissero rispettati, non ci sarebbe alcun bisogno di soluzioni corporativistiche. Facciamo un esempio: se si afferma che l’essere umano per procurarsi il necessario ha diritto a lavorare non più di tre ore al giorno o di un paio di giorni la settimana, diviene ridicolo discutere sulle trentacinque invece che quaranta ore di lavoro settimanali degli operai o degli impiegati. Il primo diritto sacro e inalienabile dell’essere umano è dunque il diritto alla vita. Quindi prima di tutto è indispensabile avere “il tempo” per organizzarsi la vita e conseguentemente il tempo per viverla. Quindi non ha alcun senso investire la quasi totalità delle proprie giornate in attività indispensabili a consentirci di vivere se poi manca il tempo necessario a godersi la vita. E’ assurdo e cinico parlare di vita a qualcuno che o è ossessionato dall’idea di “trovar lavoro” o, avendolo trovato, trascorre gran parte del suo tempo appunto lavorando, o quando, semi annullato da un’intera esistenza di faticosa sottomissione al mondo del lavoro, va finalmente “in pensione”. “La pensione”, nota anche come l’anticamera della morte. Sembrerebbe dunque semplice, anche considerando l’apporto strepitoso delle nuove tecnologie, realizzare un’organizzazione del sociale più favorevole a far sì che gli esseri umani possano avere il tempo per vivere, per stare con i propri cuccioli, per imparare a conoscere e amare se stessi e il mondo. Di smettere il loro ruolo di comparse e indossare la responsabilità di essere dei protagonisti.

IL MISTERO DELLE NUOVE TECNOLOGIE
Ma allora come mai, pur avendo le tecnologie diminuito migliaia di volte i tempi della produzione, l’orario di lavoro è rimasto più o meno inalterato? Come mai almeno una parte degli immensi profitti accumulati con i “nuovi
ritmi tecnologici” non viene investita per dare meno lavoro a chi lavora ed un lavoro a chi non ne ha affatto? Chi ha interesse a mantenere inalterato lo status quo, come se ancora l’agricoltura fruisse dell’aratro trainato dai buoi e le fabbriche fossero legate alla manualità invece che modernizzate con le nuove tecnologie? La risposta me l’ha data inavvertitamente un industriale del tondino, proprietario di un’immensa acciaieria a Brescia, un certo “Busi”. “Non pensa, caro Busi, che i suoi operai renderebbero di più lavorando mezza giornata invece che otto ore? Meno errori,meno incidenti, meno infiacchimento dei ritmi, maggiore entusiasmo produttivo?” “Sicuramente” risponde lui, “ma non sarebbero più operai!” “Cioè, azzardo io prudentemente, sarebbero degli esseri umani?” “Con tutto ciò che ne consegue…”, mi dice con franca ingenuità. Da allora mi sono chiesto cosa in realtà “ne consegue”, allorché un operaio può finalmente avvertire la propria dimensione di essere umano? Ne consegue forse il crollo dell’industria farmaceutica, in quanto la serenità e la gioia di vivere sarebbero sufficienti a mantenerlo in buona salute sempre. O forse ne consegue il crollo dell’industria consumistica in quanto l’”operaio”, lavorando tre o quattro ore al giorno avrebbe un tempo da dedicare alla vita e spunterebbe in lui la pulsione creativa, trovando soddisfazione nella propria laboriosità senza dover recuperare alcuna frustrazione? O la fine dell’industria basata sullo sfruttamento alla prostituzione, dato che in una comunità liberata dal giogo del lavoro e della necessità, gli incontri sarebbero sufficientemente spontanei da rendere orribile e assurdo un rapporto di meretricio. O infine, facendo in modo che si lavori tutti una mezza giornata, crollerebbe a sua volta l’industria bellica dato che una condizione equa e serena di vita renderebbe ridicola qualsiasi ipotesi di conflitto? E perfino il crollo dell’industria culturale, dato che col tempo nascerebbe una “cultura dei comportamenti umani”, assai più attraente di qualsiasi cultura “di evasione”? Ah ecco dunque, forse, perché coloro che basano il loro potere su queste gigantesche industrie non vedono di buon occhio il progetto di una umanità rispettata e rispettosa della propria preziosità e grandezza, una umanità capace di godere la vita in tutta la sua estensione. Ma sarà opportuno spiegare a costoro, ai cosiddetti capi del mondo che, impedendo a tutti gli esseri umani di vivere, anche loro, i potenti, debbono accontentarsi di una parodia della vita, anche loro sono costretti al “solo esistere” sia pure nelle penombre di immense e lussuose ville, in cui i silenzi sono solcati dal passo dei servi o di governanti sottomesse o figli inebetiti dai privilegi. Insomma, è tempo che l’umanità possa finalmente vivere, di mutare le attuali antiquate strutture piramidali dove il vertice di pochi sottomette a vari livelli tutti coloro che soggiacciono, fino al fondo della piramide in cui sono stipati i derelitti, gli infimi, gli emarginati, quelli che “per farsi ascoltare debbono morire, gli assenti dalla storia, i presenti nella miseria, gli eterni bambini, i senza voce, gli abbandonati, i disperati, gli incapaci, quelli che non fanno numero, quelli della pura rabbia, quelli del puro fuoco, quelli del tutto agli altri e niente per loro.” Insomma è tempo di organizzare la comunità umana non più nella tradizionale struttura piramidale, ma in una nuova struttura sferica, dove ognuno possa essere equidistante dal centro che è, appunto, la vita. Avviene invece quotidianamente un vero e proprio genocidio non tanto dei corpi quanto delle personalità di milioni, anzi miliardi di uomini, tenuti lontani da se stessi e dalla loro creatività e dal proprio vero destino, assediati come sono da falsi problemi, false culture, false superstizioni, false credenze, falsi progetti, false promesse. E tutto ciò ad apparente beneficio di alcune migliaia di ultraricchi, ultrapotenti, ultraspietati esseri che, a loro volta, mal conoscono la preziosità e la vera grandezza della vita. Prendiamo ad esempio l’istituzione scolastica. Avverto subito che alcune delle riflessioni che andrò formulando richiedono, per essere giustamente comprese e assimilate, un ascolto specifico, affettuoso e definitivo. Partiamo dunque, come premessa, dalla semplice constatazione che elementi naturali, indispensabili all’uomo per vivere possono, in diversa dose, provocare gravi danni o addirittura la morte. L’acqua, ad esempio, l’essere umano lo disseta ma in dose eccessiva lo affoga. Il fuoco lo scalda ma lo può anche bruciare, il cibo lo nutre, ma lo può soffocare. L’apparato percettivo sensoriale e cerebrale è capace di miracolose estensioni, alcune delle quali sono a tutt’oggi inesplorate, ma un tale miracoloso apparato si guasta se gli stimoli percettivi sono sempre gli stessi, se le azioni compiute sono eccessivamente ripetitive, come accade nell’ambito lavorativo o scolastico.

LE SCUOLE
Accade quindi che istituzioni nate per soccorrere l’uomo finiscano per danneggiarlo o addirittura sopprimerlo, o che l’infinito piacere di imparare venga sostituito dalla pratica poco amata dello “studiare”. Imparare è pratica naturale di evoluzione e crescita della personalità e procura emozioni delicate e favorevoli, a volte perfino ineffabili. “Studiare” ovvero inserire di forza nel proprio apparato percettivo una serie di concetti e nozioni non chiamate dal desiderio, si rivela invece a lungo andare una pratica perversa, capace solo di annullare qualsiasi reale desiderio di conoscere. Ma l’imparare nasce dalla brezza del desiderio e offre una risposta voluta, accolta con gioia e con la partecipazione attiva di tutta la personalità. “Studiare” per contro “costringe” una mente spesso riluttante, spesso estraniata, ad applicarsi a nozioni e dati che non suscitano il minimo interesse e che quasi sempre sono lontani dalle reali necessità della persona. Per questo le scuole di ogni ordine e grado, pubbliche o private, tradizionali e sperimentali, a un attento esame delle loro strutture operative rivelano inquietanti analogie con gli istituti di pena e a volte perfino con i campi di sterminio. La scritta “il lavoro rende l’uomo libero” di sinistra concezione nazista, posta all’ingresso dei campi annunciati all’inizio come “campi di rieducazione” e divenuti ben presto campi di sterminio, potrebbe dunque trovare un perfetto analogo nella scritta “lo studio rende l’uomo libero”. Lo studio, nato per promuovere ed estendere la creatività e divenuto ben presto uno strumento capace di estirpare qualsiasi creatività e di demolire ogni desiderio naturale di apprendere. Imparare, apprendere, ampliare le proprie conoscenze del mondo si rivela come uno dei massimi piaceri che la natura offre, mentre “studiare” è ormai
divenuto un tormento permanente. Cercherò di esemplificare una distinzione fondamentale tra i due procedimenti.
Imparare corrisponde grosso modo al piacere di nutrirsi, magari scegliendo i cibi a seconda dei propri desideri, che poi assai spesso corrispondono alle necessità dell’organismo. Studiare invece corrisponde a un “trattamento sanitario obbligatorio” come se qualcuno lo programmasse così: ore otto pane, ore 9 pasta, ore 10 carne, ore 11 verdure, ore dodici frutta. E così ogni giorno e, di fronte a tentativi legittimi di disperazione o di ribellione della vittima di turno, l’”ingozzatore” non senza innocente cinismo enunciasse la sua verità: “Guarda che se non ti nutri muori”. Un'evidente analogia accade nel nutrire spietata osservanza “dei programmi”. Sì, i ragazzi a scuola si annoiano, fingono di ascoltare, sono sempre meno capaci di esprimere una loro visione del mondo, ma “il programma è stato rispettato e ultimato”. Pian piano si è praticamente estinto ogni naturale desiderio di sapere, e smarrito per sempre il piacere di “conoscere”.

LA TRAGEDIA DELLE CILIEGE TRIANGOLARI
Il fatto è che l’essere umano, intorno ai cinque anni di età, si presenta come la miniatura di un universo perfetto: chiede il perché di tutto, tocca tutto, si offre a tutti, esplora incessantemente il mondo che lo circonda, si muove senza sosta, gioca, canta, si difende, si dispera fino a ottenere ciò che vuole e i suoi stessi comportamenti sono un’arte, in quanto coincidono perfettamente con ciò che sente e prova e afferma e nega. Poi questo capolavoro vivente (qualsiasi sia la sua origine) approda nello spazio scolastico e viene immediatamente sottoposto a secche restrizioni: lo obbligano a star seduto, non può esprimersi o intervenire se non quando “tocca a lui” e, quando chino sul foglio si abbandona con gioia alla propria creatività e disegna ciuffi di ciliegie di forma triangolare di un delicato color rosa, implacabilmente “la maestra” fa notare che: “No piccolo mio, stai più attento, le ciliege non sono triangolari, sono rotonde.” La grande mano della maestra imprigiona la manina smarrita e la obbliga a correggere i triangoli in altrettanti cerchi. “Così… così… E poi non sono rosa, sono rosse. Le ciliege sono rosse!” E da quell’istante ha inizio il percorso della sfiducia in se stessi, indispensabile per sottomettere un essere umano e fargli credere sia ineluttabile negare a se stesso il tempo del gioco e della vita. Quando la sua sottomissione alla fine dell’esperienza scolastica sarà tale da subire con tremore e ossequio la tortura di esami insensati e vessatori, in cambio riceverà il diploma. Maturo. Maturo a sottomettersi per tutta la vita a un lavoro di otto o dieci ore al giorno, insomma un ergastolo vestito da “necessità sociale”. Così, di anno in anno, di programma in programma, il genocidio si compie, facendo nascere nei giovani una legittima repulsione per qualsiasi cibo culturale che non sia la frivola, superficiale lista di scempiaggini da fast food culturale dei giornali sportivi o scandalistici, la pornografia, i film industriali, le soap opera, gli inviti lusinghieri a tentare la fortuna al lotto o al gratta e vinci, la cultura sciatta e triviale della tifoseria nel calcio, la bassa qualità del diverbio politico tra i partiti. La libertà di imparare invece condurrebbe ad una armonica crescitadell’infanzia all’interno di una personalità sempre più sicura di sé, capace di
costruirsi un proprio destino, senza alcuna traccia di sottomissione o di dipendenza. “Cosa proponi dunque come alternativa a proposito della scuola?” “Mi piacerebbe che alle scuole accadesse quello che giustamente è accaduto ai manicomi. E cioè che tutte le scuole venissero chiuse. Messe fuorilegge. E che ci fossero dei Centri di Salute Culturale (così come invece dei manicomi ci sono dei Centri di Igiene Mentale) nei quali i bambini, i ragazzi e i giovani andrebbero, spinti dalla necessità di imparare, trovando operatori culturali in grado di fornire loro le informazioni giuste sui vari meccanismi di apprendimento, libri, cinema, computer, sull’uso di biblioteche, di nastroteche per accedere ai massimi capolavori dell’arte e così via… Dei laboratori, insomma. Spazi di incontro da frequentare soprattutto in caso di pioggia. Un buon computer costa mille volte meno di un insegnante e “sa” mille volte di più. Inoltre, una volta liberate le strade cittadine dalle automobili con efficienti installazioni di marciapiedi mobili e una volta liberati gli esseri umani dall’obbligo di lavorare più di tre ore al giorno, ognuno diverrebbe insegnante di ciascuno. E allora ogni essere umano sarebbe tanto “essere umano” quanto ogni gatto è stupendamente “Gatto”. Ma dove si andrebbe a finire se tutti gli esseri umani coincidessero con se stessi? Cosa potrebbero fare nel tempo che ora li occupa a lavorare? Va detto che, a chiunque io abbia fatto questo discorso, la classica opposizione è la seguente: “Certo, lo so che sono prigioniero di una serie di gabbie invisibili, il lavoro obbligatorio, la famiglia subita perché mal frequentata, il desiderio di denaro come frutto di una perenne indigenza etc... Ma tutto ciò mi dà almeno una certa sicurezza. Cosa farei se fossi libero?” E’ proprio l’impossibilità di concepire la libertà che rende l’uomo schiavo. Essere riusciti a togliergli la possibilità perfino di immaginare una vita vissuta nella libertà lo rende perfettamente sottomesso, uno schiavo moderno.

LA FESTA IMPROVVISA
Vorrei qui ricordare che quando gli apparati politici o di potere (più occulto che non) allestirono circa venti anni fa la gran farsa dell’”Esaurimento dei pozzi petroliferi” e per motivi misteriosi costrinsero improvvisamente gli esseri umani a non usare l’automobile il sabato e la domenica, si verificò subito qualcosa di straordinario. Le strade si riempirono di gente, felice di potersi incontrare, confrontare e frequentare senza intossicarsi a vicenda con l’ossido di carbonio delle automobili, senza dover guardare a destra e a sinistra centinaia di volte nel terrore di essere travolti da qualche auto pirata. Ebbene, quell’improvvisa euforica festosità era un’immagine della vita, qualcosa di esemplare rispetto all’ipotesi di liberare gli esseri umani dal peso di un lavoro coatto e del “consumare benzina ad ogni costo”. C’era chi pattinava, chi si era costruito ingegnosi monopattini, trionfavano biciclette di ogni genere, si rivedeva anche qualche calesse e tutti, nella via, sembravano tornati a possedere il mondo. Naturalmente tutto ciò era troppo rischioso, la gente rischiava di scoprire che la vera felicità non ha costi economici ma nasce dallo “stare insieme” con se stessi e con gli altri, dal poter comunicare con gli altri e con se stessi. E poiché incominciava a spuntare una nuova cultura, la cultura dei comportamenti, gli apparati di potere senza tante spiegazioni, neppure temendo la vergogna dello smascheramento, in contraddizione con ciò che avevano allarmisticamente sostenuto, decisero di sospendere “la festa” e tornare a far traboccare le strade di automobili e di veleni. E’ dunque importante ritrovare la memoria di quei giorni, o magari della propria infanzia, la delicata festosità dello stare insieme e del conoscersi e riconoscersi, ridando alla persona umana e quindi anche a se stessi la massima dignità, quella di poter rispondere in qualsiasi momento a chiunque chieda “Come va?” Semplicemente “Sto vivendo.”