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mercoledì 11 maggio 2011

Dalla boxe alla pittura sui marciapiedi di Caracas

di Monica Vistali

CARACAS - José é sempre molto concentrato e silenzioso. Appoggia il braccio ad una spranga di metallo perché non tremi quella mano anziana che, ogni tanto, gli fa brutti scherzi. Perché José, il pittore italovenezolano di Sabana Grande, deve avere la mano ferma per creare le sue opere, ritagliare nel grigiore dell’en plein air metropolitano un angolo di colore e poesia.
José Vicente Aponte, questo il suo nome completo, da trentotto anni passa le sue giornate dipingendo in quella che é, come dice il mural accanto, una “scuola libera di pittura”. Nessuno spazio chiuso e nessuna parete: solo poche panchine e numerose tele dai colori sgargianti addossate lungo il rientrio di un marciapiede sempre battuto. E da lí, da quel polveroso atelier su misura fitto di cavalletti, tele e tavolozze sporche, scruta e riproduce, immagina e crea. Saccheggia il reale e lo cattura in una forma astratta, lo trasforma in opere dense di materia, in sfumature che si stemperano.
Figlio di una donna salernitana, arrivata in Venezuela per lavorare nell’industria pastificia, José trascorre la sua giovinezza sul ring di una palestra di Caracas. Ma anche da boxer professionista – sara´campione nazionale – non abbandona quella passione per l’arte che, come ci racconta, e´nata quando aveva solo quattro anni, e sulla quale ora ha le idee molto chiare: “Oltre al veneziano Tintoretto, l’italiano che prediligo, sono affascinato dal Rinascimento. Lí si ritrova la ricerca infinita e quello che io definisco ‘l’antagonismo esistenziale’, la scoperta di qualcosa dentro di noi che é necessario esprimere, qualcosa di assolutamente nuovo, prima neppure concepibile. La ricerca sfocia poi necessariamente nell’astrattismo. Astrattismo che é creativitá e originalitá assoluta. Per questo motivo – continua – amo la pittura di Picasso, che del resto é il mio artista preferito”.
Mentre si racconta, la gente gli scorre lungo il marciapiede accanto, indifferente. “La strada é la mia finestra sul mondo – ci racconta José –. Quello che queste persone non capiscono – commenta - é che negare questo spazio, che é arte, significa negare se stessi, perché l’arte é la massima espressione della vita dell’uomo. Quando si raggiunge l’arte, si raggiunge anche il centro della nostra esistenza. Per questo non ho bisogno di muovermi. Sto seduto qui, fumando la pipa ed osservando le persone. Purtroppo vedo che la geste non s’interessa dell’arte, della bellezza, dello spirito. Non si sofferma su nulla. Non pensa, non immagina. A questo tempo manca la creazione”. Sfuggono alle critiche i bambini che, ogni settimana, fanno visita a José: “Tutte le settimane una ventina di bambini vengono qui a dipingere. Io li lascio liberi, non dico loro nulla. Sono maestri di se stessi, come io sono maestro di me stesso. Il loro é un esercizio attraverso il quale c’é un’introduzione alla conoscenza. Si sviluppano anticorpi contro le cose di poco valore, ci allonatana dalle bugie e dalla spazzatura della vita. Attraveso l’arte arrivano a conoscere la veritá e, poi, piú nulla li puó ingannare. Io ho visto molto nella mia vita – continua José -. Quello che ora devo fare é disconnettermi dal reale che ho vissuto e continuare il cammino della ricerca, i sentieri dei linguaggi, il processo dell’apprendimento infinito che rappresenta sia l’arte che la vita. Non a caso, l’arte e la mia vita hanno sempre camminato fianco a fianco. Devo tornare bambino”.
Lascio José circondato dalle sue tele. Silenzioso, immobile. E ricordo quello che diceva il suo amato Picasso: “Se dipingete, chiudete gli occhi e cantate”.

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