CARACAS - Dopo le esperienze del colpo di stato del 2002, passato alla storia come il primo colpo di stato mediatico, il governo venezuelano sta all’erta: ogni accusa, ogni critica, ogni sensazionalismo, ogni bugia possono essere il tassello silenzioso di un’opera di destabilizzazione del Paese. Si dispensano così, più che a manca a destra, multe e sanzioni, mentre talvolta le licenze non vengono rinnovate e i giornali si chiudono.
L’ultimo caso è quello di Sexto Poder, un settimanale che per aver presentato le sei donne a carico dei poteri pubblici come cabarettiste can can manipolate da Mister Chávez, ha chiuso i battenti ed ha fatto finire in galera la direttrice. La colpa? Istigazione all’odio. Il risultato? Uno fiume di critiche dall’opposizione che accusa il governo di censura su base politica.
Spostiamoci nel tempo e nello spazio. Perù, giugno 2009. Da un giorno all'altro l'ex governo peruviano spegne i microfoni dell'emittente Radio La Voz, che dall'Amazzonia denuncia le rappresaglie militari contro le comunità native. La notifica della chiusura a pochi giorni dalla radiocronaca di una strage che lascia morti e feriti tra gli indigeni in lotta contro il Trattato di Liberto Commercio, 'cittadini di serie B' secondo l’ex presidente Alan García. Le scuse sono simili a quelle utilizzate dal governo venezuelano: “Secondo loro incitavamo alla violenza”, spiega il direttore di Radio La Voz, Carlos Borja “e ci hanno revocato la licenza affermando che non avevamo presentato in tempo la documentazione necessaria. Ma non è vero”.
L’istigazione all’odio del caso venezuelano e l’incitamento alla violenza di quello peruviano hanno un denominatore comune: sono considerati atteggiamenti da condannare e punire ma nello stesso tempo vengono - stando alla reazione delle vittime - utilizzati come giustificazione per limitare la libertà di espressione. Ed è proprio per non bissare le esperienze dei vicini latinoamericani - e non avere una nuova norma che possa dar adito ad una sanzione/censura - che l’opposizione boliviana ha reagito con forza contro la legge anti-razzismo e anti-discriminazione fortemente voluta dal presidente (indigeno) Evo Morales.
La legge, che stando al capo di Stato integrazionista dovrebbe dire una volta per tutte ‘basta’ ai programmi che definiscono quella indigena una 'razza maledetta' (“Il media che autorizzerà o pubblicherà idee razziste e discriminatorie sarà passibile di sanzioni economiche e della sospensione della licenza”, recita la norma) ha scatenato l'ira delle opposizioni, certe che la misura intaccherà la libertà di espressione in quanto la responsabilità di definire cosa è razzismo e cosa no viene attribuita a funzionari statali. “E’ come mettere una morsa ai media nello stile di Chávez” denuncia Mauricio Muñoz, capo dell’opposizione alla Camera dei Deputati mentre per protesta i giornali sono usciti con le prime pagine in bianco e la scritta 'Non c'è democrazia senza libertà di stampa', i giornalisti hanno proclamato lo sciopero della fame e perfino la Conferenza episcopale si è pronunciata perplessa.
“Il mio lavoro è quello di sradicare i razzisti che sono a capo dei mezzi di comunicazione. E questa norma darà fastidio solo a quelle persone che diffondono razzismo attraverso un microfono. Non metteremo a tacere i media e mai lo faremo” ha risposto loro Morales.
Insomma, presidenti vs mass media.
Interessante il caso Ecuador, dove il presidente Rafael Correa ha denunciato la stampa che lo colpevolizzava di crimini contro l'umanità per aver ordinato la sparatoria avvenuta nell'ospedale dove era stato imprigionato durante, precisazione necessaria, un tentativo di golpe. L'accusa: Ingiurie calunniose. “Perché rubare un cellulare significa prigione e rubare la reputazione, che è molto più grave, no?” si chiede.
Correa riprende poi le parole del neopresidente peruviano Ollanta Humala che sottolinea come la stampa continui a “fare danni” ma “non mette e non toglie più i presidenti come ne ha voglia”. Sotto braccio anche qui la nuova Legge delle Comunicazioni che alcuni chiamano legge bavaglio, secondo il presidente attaccata da 'mafie' e media privati che, come si dice in Venezuela, cospirano contro la Nazione con la scusa della libertà d'espressione. “Si mente nella stampa in nome della libertà d'espressione, in politica in nome dell'astuzia e nel quotidiano in nome di qualsiasi cosa” filosofeggia.
Ci sono Paesi in cui la situazione è certamente più grave.
In Honduras, dopo il colpo di stato del 28 giugno 2009 che ha portato al potere il bergamasco Roberto Micheletti e poi, col voto e un'astensione da record Porfirio Lobo, la repressione contro i media che si sono mostrati critici contro i golpisti è stata sistematica e sono stati perseguitati anche i giornalisti internazionali accorsi nel Paese. Una decina i morti.
Libertà negata anche in Messico, dove da anni si arrestano e si rilasciano sotto onerose cauzioni i giornalisti dell'emittente indigena Nomndaa, nel mirino delle autorità per le loro denunce contro i leader politici locali più in vista. Non solo: secondo uno studio della Commissione Nazionale per i Diritti Umani sono 68 i giornalisti messicani uccisi negli ultimi dieci anni, 13 quelli scomparsi. La causa è il connubio tra narcos e governo, colpevole secondo la Federazione dei giornalisti dell'America latina e dei Caraibi di “minimizzare i crimini contro i giornalisti, l'aumento esponenziale degli attacchi violenti contro i comunicatori sociali e la persecuzione verso giudici e magistrati, di cui è il principale artefice ma che grazie a una suggestiva campagna internazionale riesce a mascherare e negare".
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