Dopo le esperienze del colpo di stato del 2002, passato alla storia come il primo colpo di stato mediatico, il governo di Hugo Chávez sta all’erta: ogni accusa, ogni critica, ogni sensazionalismo, ogni bugia possono essere il tassello silenzioso di un’opera di destabilizzazione del Paese.
di Monica Vistali
CARACAS - Libertà di espressione ancora al centro del dibattito in Venezuela, dove è stato chiuso il settimanale Sexto Poder, colpevole di istigazione all'odio per aver presentato le sei donne a carico dei poteri pubblici (tra cui la vice presidente del Parlamento e le titolari del Tribunale supremo e del Consiglio elettorale, come cabarettiste can can manipolate da un poco misterioso Mister Chávez.
Arrestata ed ora in libertà condizionata la direttrice del giornale, latitante l'editore, potere legislativo a rapporto per una sessione straordinaria sul tema. “È il bavaglio chavista”, denuncia l'opposizione, mentre dalle fila del governo si applaude per un nuovo stop ad uno dei tanti “attacchi alle istituzioni” perpetrati dalla “destra golpista” e si cita “Il perfetto golpe latinoamericano”, documento presuntamente elaborato dal Dipartimento di Stato Usa che prevede l'uso dei giornalisti per “generare condizioni destabilizzanti” nel Paese.
La Società Interamericana della Stampa parla di “abuso di potere” e dichiara che “nessuno può finire in carcere solo per esprimere una critica”. Ma ormai il danno è fatto e Sexto Poder finirà insieme ai canali Rctv (cui non è stata rinnovata la licenza) e Globovisión (più volte multato), del quotidiano El Nacional (sanzionato).
“È necessario difendere la patria dai tentativi golpisti”, si dice. E così si aggiusta quanto basta il limite tra satira e vilipendio, col rischio di spingere all’autocensura. Non si abbassano però i toni dello scontro utilizzati dai media: partitari, parziali, dediti più a convincere che ad informare.
Più che altrove, in Venezuela per farsi un'idea delle cose è indispensabile cambiare spesso canale. L'agenda dei media filogovernativi è distante da quella degli oppositori ed ognuno parla solo al suo pubblico. Ogni critica al proprio fronte è un autogol, off limits le investigazioni che danneggiano la propria area politica. E così mentre Globovisión si lancia ogni giorno alla ricerca degli scontenti per provare l'inefficienza del governo (attacchi che cesserebbero se alle prossime elezioni ci fosse un ribaltone politico), con toni da giornale di partito AvilaTv e La Hojilla denunciano le macchinazioni dell’Imperio per togliere di mezzo Chávez, pubblicizzano i traguardi raggiunti del governo bolivariano e i suoi sforzi per creare un'America latina libera e integrata.
Risultato: per i media allineati va sempre tutto bene (e non è vero), per gli altri tutto va sempre male e Chávez non ha mai fatto nulla di buono (e non è vero). Anche a costo della completezza dell'informazione, dell’etica e della deontologia, non si abbandona il campo di una guerra protratta a suon di notizie. Il conduttore de La Hojilla lo diceva giorni fa: ‘Sono un guerrillero dello schermo, l’obiettivo è demolire gli attacchi al governo perpetrati dall'opposizione e dal mainstream internazionale’.
Ma possono critica e satira, condite magari da imprecisioni o bugie che dir si voglia, mettere a rischio un governo democraticamente eletto? In Venezuela sì. È già successo con quello che è passato alla storia come il primo colpo di stato mediatico.
Una mattina del 2002 il Venezuela si svegliò con un giornalista tv che sorridente diceva: “Buongiorno, abbiamo un nuovo Presidente”. Chávez era stato rapito e con un colpo di Stato era salito al potere Pedro Carmona. Fu un golpe allestito con l'aiuto indispensabile dei media privati - in testa Globovisión e Rctv - che prepararono il terreno nei giorni precedenti, trasmisero cartoons mentre i militari accerchiavano il palazzo del governo e sostennero, mentre le tv pubbliche erano oscurate, che il capo dello Stato si era volontariamente dimesso.
Tornato al potere Chávez non sbatté in cella i firmatari del Decreto Carmona e il sistema radio-tv che aveva partecipato al golpe proseguì il suo lavoro. Continuarono gli attacchi e Chávez non mosse ciglio nel vedersi in versione Terzo Reich s’una rivista o quando la tv consigliava che sarebbe dovuto finire in piazza a testa in giù, “come quell'altro dittatore italiano”.
Il governo bolivariano è quindi una vittima innocente che bacchetta i media solo per autodifesa? No.
Perché non c'è mai stata sanzione significativa per le centinaia di radio comunitarie nate con quella “riforma agraria dell'informazione” (definizione di Gennaro Carotenuto) che ha frammentato i latifondi mediatici ridistribuendoli al popolo, idem per le tv dalla linea editoriale allineata. Una mancanza grave, che trasforma la Legge in strumento di censura politica. Le regole, sembra, valgono solo per qualcuno.
Intanto per contrastare la potenza del mainstream e dei media dell’opposizione, Chávez ha creato Telesur, prima tv pubblica interstatale al mondo “libera dalla dittatura mediatica imposta da Usa e borghesia”. Il canale gli ha fatto guadagnare il Rodolfo Walsh, autorevole premio dedicato a uno dei padri del giornalismo argentino il cui motto era: “Il crimine non è parlare, è farsi arrestare”.
Troppo per un Capo di Stato che permette la chiusura di un settimanale per un fotomontaggio? Forse, anche perché in Venezuela - dove in un eterno paradosso tutti dicono liberamente che nulla si può dire - sembra che tra mancati rinnovi di licenza, multe ed improvvise chiusure, per i media dell'opposizione la vita sia dura. Eppure, secondo i dati dell'Osservatorio Internazionale sui Media, la gran parte dell'informazione è privata e apertamente schierata contro il governo. Una strana dittatura, quella di 'Mister Chávez'.
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