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mercoledì 7 settembre 2011

Parroquia 23 de Enero, Caracas - Monica Vistali

Sicurezza prima di un comizio di Chávez, Coro 2009 - Monica Vistali

Libia, Telesur contro le menzogne dei media


A Caracas il foro ‘Artiglieria di pensiero vs Fabbriche di menzogne’ per festeggiare i due anni del Correo del Orinoco. Sul palco gli inviati di Telesur: “Non stiamo con Gheddafi ma non accettiamo l’invasione straniera in Libia”. Piedad Cordoba: “In questa guerra mediatica Telesur ha un ruolo importantissimo”

Di Monica Vistali

CARACAS - Una tre-giorni per illustrare le “manipolazioni dei media” sul caso Libia e “contrapporre alle bugie” l'esperienza degli inviati della latinoamericana Telesur, unica televisione pubblica multistatale al mondo. Questo l'obiettivo del foro che ieri ha chiuso il ciclo di conferenze ‘Artiglieria di pensiero vs Fabbriche di menzogne’, organizzato negli spazi del Celarg di Caracas per celebrare il II anniversario del quotidiano venezuelano Correo del Orinoco.
Sul palco i due inviati speciali di Telusur Jordan Rodríguez e Rolando Segura, primi giornalisti stranieri ad arrivare in Libia, che per più di 4 mesi hanno seguito la guerra sul campo. Tra il pubblico che strabordava dalla sala, in parte costretto a stare in piedi o a terra, anche Piedad Cordoba.
L’ex senatrice colombiana, interlocutrice privilegiata tra governo Uribe e Farc, ha sottolineato come “nel cosiddetto 'primo mondo' o mondo 'civilizzato' si producono bugie” ed in questa “guerra mediatica” Telesur, nata da una “decisione visionaria del presidente Chàvez”, svolge un “ruolo importantissimo”. Le ha fatto eco il mediatore Ernesto Villega: “Eravamo nel bel mezzo di un bombardamento incessante di bugie. In questa desolazione è nata la Rivoluzione bolivariana e grazie a questa è sorta Telesur ed è risorto il Correo del Orinoco (creato da Simon Bolivar nel 1818 e rieditato due anni fa, ndr)”.
I due inviati di Telesur hanno detto di non stare dalla parte di Muammar Gheddafi ma di non accettare l’invasione straniera in Libia. La stessa posizione, sostengono, era quella degli scudi umani che hanno accerchiato il Palazzo presidenziale del raís per impedire l’occupazione dei ribelli e, di riflesso, della Nato. 
È stato Jordan Rodríguez ad aprire il tema del trattamento mediatico del caso-Libia. Il venezuelano ha spiegato che “la guerra è uno strumento per vincere” e che quella in Libia è una “guerra di quarta generazione dove prima arrivano le telecamere e i giornalisti, poi le bombe”. “È stata una rivolta del Cnt o della Bbc e della Cnn?” si è chiesto. 
“Eravamo a Roma e seguivamo preoccupati le notizie diffuse dai media, secondo cui le truppe fedeli a Gheddafi stavano massacrando civili nella Piazza Verde. Ci immaginavamo mamme con bambini bombardate dai lealisti ma arrivati sul posto non abbiamo visto nulla di tutto questo”.
“Quello del 24 febbraio su Tripoli - ha poi aggiunto - è stato un bombardamento mediatico. Mentre i media parlavano di bombe, noi riprendevamo una panoramica dei tetti e non c’era nulla”.
Rodríguez ha raccontato di giornalisti stranieri che mandavano ai propri Paesi notizie di bombardamenti ed aggressioni senza però uscire mai dall’hotel, affermando di avere ‘fonti sicure’. “Chiedevo il nome di queste fonti e sempre mi parlavano di misteriosi ‘Alì’.
L’inviato, ribattendo a speculazioni secondo le quali Telesur avrebbe ricevuto istruzioni dal governi venezuelano su come trattare le notizie della Libia, ha sottolineato che “l’unico ordine è stato: arrivate e riportate quello che succede”.
Il cubano Rolando Segura ha parlato della crisi umanitaria che vive la Libia enfatizzando la “ondata di razzismo” messa in moto dai “miti e dalle bugie dei media” e che oggi pervade il Paese che per primo ha lottato per l’unione africana. Un’azione di “pulizia etnica contro gli afrodiscendenti”, “relazionati a presunti mercenari al soldo di Gheddafi”.
Segura ha confermato le parole del collega sulla inesistenza dei bombardamenti dei lealisti su Tripoli, spiegando che l’informazione sarebbe partita da un messaggio Twitter di una tv araba poi ripreso dai media internazionali. “I primi morti sono stati gli uomini delle forze di sicurezza quando i ribelli hanno assaltato i centri di polizia per rubare le armi ed iniziare la lotta armata” ha detto.
L’inviato ha poi passato in rassegna alcune “menzogne dei media” sulla guerra in Libia.
Ha negato la distribuzione di dosi di viagra da parte del Colonnello per incitare i lealisti a violenze sessuali sui civili, ricordando come il video dello stupro diffuso come prova da alcuni media inglesi sia stato identificato come stralcio di un vecchio film pornografico. Ha citato il caso delle immagini dei libici in festa nella Piazza Verde che hanno fatto il giro del mondo ma che alcuni sostengono riprese in un set ricostruito in Qatar. “Me lo avevano detto giorni prima - racconta - ma non ci credevo”. E, ancora, i “danni collaterali” dei bombardamenti Nato. “Colpivano un edificio e i media riprendevano quello di fianco - spiega - un po’ meno distrutto”.
“Ho visto però grandi agenzie non prestare attenzione alle denuncie dell’utilizzo di bambini-soldato da parte del Cnt - spiega Segura -. Silenzio anche sulla cinquantina di aborti spontanei riportati ogni giorno all’Ospedale di Tripoli a causa degli aerei che, come a Gaza, rompono la barriera del suono e creano un boato simile a quello di un bombardamento”.
Quando il microfono è stato passato al pubblico, in molti hanno sottolineato come il Venezuela non sia nuovo a manipolazioni mediatiche. “Per noi non è strano vedere la realtà da una parte e i media dall’altra - ha detto uno spettatore -. Basta ricordare i fatti dello ‘paro petrolero’ e del golpe dell’11 aprile 2002”.

Regolare la stampa per proibire la libertà?

di Monica Vistali

CARACAS - Dopo le esperienze del colpo di stato del 2002, passato alla storia come il primo colpo di stato mediatico, il governo venezuelano sta all’erta: ogni accusa, ogni critica, ogni sensazionalismo, ogni bugia possono essere il tassello silenzioso di un’opera di destabilizzazione del Paese. Si dispensano così, più che a manca a destra, multe e sanzioni, mentre talvolta le licenze non vengono rinnovate e i giornali si chiudono.
L’ultimo caso è quello di Sexto Poder, un settimanale che per aver presentato le sei donne a carico dei poteri pubblici come cabarettiste can can manipolate da Mister Chávez, ha chiuso i battenti ed ha fatto finire in galera la direttrice. La colpa? Istigazione all’odio. Il risultato? Uno fiume di critiche dall’opposizione che accusa il governo di censura su base politica.
Spostiamoci nel tempo e nello spazio. Perù, giugno 2009. Da un giorno all'altro l'ex governo peruviano spegne i microfoni dell'emittente Radio La Voz, che dall'Amazzonia denuncia le rappresaglie militari contro le comunità native. La notifica della chiusura a pochi giorni dalla radiocronaca di una strage che lascia morti e feriti tra gli indigeni in lotta contro il Trattato di Liberto Commercio, 'cittadini di serie B' secondo l’ex presidente Alan García. Le scuse sono simili a quelle utilizzate dal governo venezuelano: “Secondo loro incitavamo alla violenza”, spiega il direttore di Radio La Voz, Carlos Borja “e ci hanno revocato la licenza affermando che non avevamo presentato in tempo la documentazione necessaria. Ma non è vero”.
L’istigazione all’odio del caso venezuelano e l’incitamento alla violenza di quello peruviano hanno un denominatore comune: sono considerati atteggiamenti da condannare e punire ma nello stesso tempo vengono - stando alla reazione delle vittime - utilizzati come giustificazione per limitare la libertà di espressione. Ed è proprio per non bissare le esperienze dei vicini latinoamericani - e non avere una nuova norma che possa dar adito ad una sanzione/censura - che l’opposizione boliviana ha reagito con forza contro la legge anti-razzismo e anti-discriminazione fortemente voluta dal presidente (indigeno) Evo Morales.
La legge, che stando al capo di Stato integrazionista dovrebbe dire una volta per tutte ‘basta’ ai programmi che definiscono quella indigena una 'razza maledetta' (“Il media che autorizzerà o pubblicherà idee razziste e discriminatorie sarà passibile di sanzioni economiche e della sospensione della licenza”, recita la norma) ha scatenato l'ira delle opposizioni, certe che la misura intaccherà la libertà di espressione in quanto la responsabilità di definire cosa è razzismo e cosa no viene attribuita a funzionari statali. “E’ come mettere una morsa ai media nello stile di Chávez” denuncia Mauricio Muñoz, capo dell’opposizione alla Camera dei Deputati mentre per protesta i giornali sono usciti con le prime pagine in bianco e la scritta 'Non c'è democrazia senza libertà di stampa', i giornalisti hanno proclamato lo sciopero della fame e perfino la Conferenza episcopale si è pronunciata perplessa.
“Il mio lavoro è quello di sradicare i razzisti che sono a capo dei mezzi di comunicazione. E questa norma darà fastidio solo a quelle persone che diffondono razzismo attraverso un microfono. Non metteremo a tacere i media e mai lo faremo” ha risposto loro Morales.
Insomma, presidenti vs mass media.
Interessante il caso Ecuador, dove il presidente Rafael Correa ha denunciato la stampa che lo colpevolizzava di crimini contro l'umanità per aver ordinato la sparatoria avvenuta nell'ospedale dove era stato imprigionato durante, precisazione necessaria, un tentativo di golpe. L'accusa: Ingiurie calunniose. “Perché rubare un cellulare significa prigione e rubare la reputazione, che è molto più grave, no?” si chiede.
Correa riprende poi le parole del neopresidente peruviano Ollanta Humala che sottolinea come la stampa continui a “fare danni” ma “non mette e non toglie più i presidenti come ne ha voglia”. Sotto braccio anche qui la nuova Legge delle Comunicazioni che alcuni chiamano legge bavaglio, secondo il presidente attaccata da 'mafie' e media privati che, come si dice in Venezuela, cospirano contro la Nazione con la scusa della libertà d'espressione. “Si mente nella stampa in nome della libertà d'espressione, in politica in nome dell'astuzia e nel quotidiano in nome di qualsiasi cosa” filosofeggia.
Ci sono Paesi in cui la situazione è certamente più grave.
In Honduras, dopo il colpo di stato del 28 giugno 2009 che ha portato al potere il bergamasco Roberto Micheletti e poi, col voto e un'astensione da record Porfirio Lobo, la repressione contro i media che si sono mostrati critici contro i golpisti è stata sistematica e sono stati perseguitati anche i giornalisti internazionali accorsi nel Paese. Una decina i morti.
Libertà negata anche in Messico, dove da anni si arrestano e si rilasciano sotto onerose cauzioni i giornalisti dell'emittente indigena Nomndaa, nel mirino delle autorità per le loro denunce contro i leader politici locali più in vista. Non solo: secondo uno studio della Commissione Nazionale per i Diritti Umani sono 68 i giornalisti messicani uccisi negli ultimi dieci anni, 13 quelli scomparsi. La causa è il connubio tra narcos e governo, colpevole secondo la Federazione dei giornalisti dell'America latina e dei Caraibi di “minimizzare i crimini contro i giornalisti, l'aumento esponenziale degli attacchi violenti contro i comunicatori sociali e la persecuzione verso giudici e magistrati, di cui è il principale artefice ma che grazie a una suggestiva campagna internazionale riesce a mascherare e negare".

Libertà di espressione: quando la censura protegge dai ‘golpe’

Dopo le esperienze del colpo di stato del 2002, passato alla storia come il primo colpo di stato mediatico, il governo di Hugo Chávez sta all’erta: ogni accusa, ogni critica, ogni sensazionalismo, ogni bugia possono essere il tassello silenzioso di un’opera di destabilizzazione del Paese.

di Monica Vistali

CARACAS - Libertà di espressione ancora al centro del dibattito in Venezuela, dove è stato chiuso il settimanale Sexto Poder, colpevole di istigazione all'odio per aver presentato le sei donne a carico dei poteri pubblici (tra cui la vice presidente del Parlamento e le titolari del Tribunale supremo e del Consiglio elettorale, come cabarettiste can can manipolate da un poco misterioso Mister Chávez.
Arrestata ed ora in libertà condizionata la direttrice del giornale, latitante l'editore, potere legislativo a rapporto per una sessione straordinaria sul tema.  “È il bavaglio chavista”, denuncia l'opposizione, mentre dalle fila del governo si applaude per un nuovo stop ad uno dei tanti “attacchi alle istituzioni” perpetrati dalla “destra golpista” e si cita “Il perfetto golpe latinoamericano”, documento presuntamente elaborato dal Dipartimento di Stato Usa che prevede l'uso dei giornalisti per “generare condizioni destabilizzanti” nel Paese.
La Società Interamericana della Stampa parla di “abuso di potere” e dichiara che “nessuno può finire in carcere solo per esprimere una critica”. Ma ormai il danno è fatto e Sexto Poder finirà insieme ai canali Rctv (cui non è stata rinnovata la licenza) e Globovisión (più volte multato), del quotidiano El Nacional (sanzionato).
“È necessario difendere la patria dai tentativi golpisti”, si dice. E così si aggiusta quanto basta il limite tra satira e vilipendio, col rischio di spingere all’autocensura. Non si abbassano però i toni dello scontro utilizzati dai media: partitari, parziali, dediti più a convincere che ad informare.
Più che altrove, in Venezuela per farsi un'idea delle cose è indispensabile cambiare spesso canale. L'agenda dei media filogovernativi è distante da quella degli oppositori ed ognuno parla solo al suo pubblico. Ogni critica al proprio fronte è un autogol, off limits le investigazioni che danneggiano la propria area politica. E così mentre Globovisión si lancia ogni giorno alla ricerca degli scontenti per provare l'inefficienza del governo (attacchi che cesserebbero se alle prossime elezioni ci fosse un ribaltone politico), con toni da giornale di partito AvilaTv e La Hojilla denunciano le macchinazioni dell’Imperio per togliere di mezzo Chávez, pubblicizzano i traguardi raggiunti del governo bolivariano e i suoi sforzi per creare un'America latina libera e integrata.
Risultato: per i media allineati va sempre tutto bene (e non è vero), per gli altri tutto va sempre male e Chávez non ha mai fatto nulla di buono (e non è vero). Anche a costo della completezza dell'informazione, dell’etica e della deontologia, non si abbandona il campo di una guerra protratta a suon di notizie. Il conduttore de La Hojilla lo diceva giorni fa: ‘Sono un guerrillero dello schermo, l’obiettivo è demolire gli attacchi al governo perpetrati dall'opposizione e dal mainstream internazionale’.
Ma possono critica e satira, condite magari da imprecisioni o bugie che dir si voglia, mettere a rischio un governo democraticamente eletto? In Venezuela sì. È già successo con quello che è passato alla storia come il primo colpo di stato mediatico.
Una mattina del 2002 il Venezuela si svegliò con un giornalista tv che sorridente diceva: “Buongiorno, abbiamo un nuovo Presidente”. Chávez era stato rapito e con un colpo di Stato era salito al potere Pedro Carmona. Fu un golpe allestito con l'aiuto indispensabile dei media privati - in testa Globovisión e Rctv - che prepararono il terreno nei giorni precedenti, trasmisero cartoons mentre i militari accerchiavano il palazzo del governo e sostennero, mentre le tv pubbliche erano oscurate, che il capo dello Stato si era volontariamente dimesso.
Tornato al potere Chávez non sbatté in cella i firmatari del Decreto Carmona e il sistema radio-tv che aveva partecipato al golpe proseguì il suo lavoro. Continuarono gli attacchi e Chávez non mosse ciglio nel vedersi in versione Terzo Reich s’una rivista o quando la tv consigliava che sarebbe dovuto finire in piazza a testa in giù, “come quell'altro dittatore italiano”.
Il governo bolivariano è quindi una vittima innocente che bacchetta i media solo per autodifesa? No.
Perché non c'è mai stata sanzione significativa per le centinaia di radio comunitarie nate con quella “riforma agraria dell'informazione” (definizione di Gennaro Carotenuto) che ha frammentato i latifondi mediatici ridistribuendoli al popolo, idem per le tv dalla linea editoriale allineata. Una mancanza grave, che trasforma la Legge in strumento di censura politica. Le regole, sembra, valgono solo per qualcuno.
Intanto per contrastare la potenza del mainstream e dei media dell’opposizione, Chávez ha creato Telesur, prima tv pubblica interstatale al mondo “libera dalla dittatura mediatica imposta da Usa e borghesia”. Il canale gli ha fatto guadagnare il Rodolfo Walsh, autorevole premio dedicato a uno dei padri del giornalismo argentino il cui motto era: “Il crimine non è parlare, è farsi arrestare”.
Troppo per un Capo di Stato che permette la chiusura di un settimanale per un fotomontaggio? Forse, anche perché in Venezuela - dove in un eterno paradosso tutti dicono liberamente che nulla si può dire - sembra che tra mancati rinnovi di licenza, multe ed improvvise chiusure, per i media dell'opposizione la vita sia dura. Eppure, secondo i dati dell'Osservatorio Internazionale sui Media, la gran parte dell'informazione è privata e apertamente schierata contro il governo. Una strana dittatura, quella di 'Mister Chávez'.