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giovedì 11 febbraio 2010

Centri Italo-venezolani: centri sociali o club d’elite?

Nati come luoghi di riunione di tutti gli italiani giunti in Venezuela in cerca di fortuna, e quindi multiclassisti, corrono il rischio di trasformarsi in clubs elitari

di Monica Vistali

CARACAS - Angelo Cristillo comprò la sua azione del Centro Italiano Venezolano di Caracas tanti anni fa. Gli costò 500 bolívares e la pagò a credito. Oggi questa può sembrare una cifra irrisoria, e certamente lo è, ma ieri rappresentava molto denaro. Da allora tante cose sono cambiate. I nostri emigranti, a quei tempi, sbarcavano a La Guaira con una valigia di nostalgia, pochi soldi e tanti, tantissimi sogni. I primi giorni erano assai duri, intrisi di tristezza e malinconia. Si era alla ricerca di un lavoro, di una occupazione che molti s’inventavano, ma soprattutto di qualche volto conosciuto, di qualche compaesano e aria, tanta aria di casa. Nel Civ, gli italiani di Caracas s’incontrarono l’un l’altro.
Cristillo continua a frequentare il nostro sodalizio ‘caraqueño’. Alle ragioni di una volta, però, oggi se ne aggiungono altre, frutto della nuova realtà del Paese: è un luogo elegante e tranquillo, niente rapine o sequestri, che ti offre piscine olimpioniche e la certezza di aver parcheggiato l’automobile in un posto sicuro.
- Passeggio – ci dice Cristillo – sereno, senza dovermi guardare alle spalle.
Gli fa eco Alessandro Sansone.
- Si viene al Civ e si cammina tranquilli – commenta -. In strada è una giungla.
E così, uno dopo l’altro, “gli italiani finiscono per rinchiudersi sempre più”, come racconta il tesoriere di Fedeciv, Junio Chiari, e trascorrono il tempo protetti dal vetro di quella campana dorata che è l’“Italo”, come viene chiamato il Civ dai più affezionati. Perchè in qualsiasi caso, interviene Giuliana Ferri, “Caracas non ti offre nulla: cosa vuoi fare – si chiede – se non vai al mare o nei centri commerciali, che fra l’altro sono diventati anch’essi pericolosi?”.
Dal canto suo Benito, con un forte accento campano sottolinea:
- Qui in Venezuela, oggi, la tua vita diventa un diamante che non puoi indossare e non sai dove nascondere. Nell’“Italo”, invece, puoi dare gas a quella Cadilac che per strada non puoi usare. Perchè fuori, il Latinoamerica è e resta sempre il Latinoamerica.
La soglia
All’interno dei trenta Centri Italiano-Venezolani e Case d’Italia sparsi sul territorio, da Caracas a Carupano, da Maracaibo a Merida, da El Tigre a Puerto Ordaz, “si ritrova il paesello e la lingua nativa, insomma una piccola Italia”, ci dice Benito dall’alto della terrazza dell’Edificio Sede del Civ della capitale, quello che ritaglia i suoi eventi e le sue cerimonie ergendosi maestoso sullo sfondo di un corollato di piccole luci e labirinti di scale. Il contrasto tra le due colline, la ricca e la povera, è netto. Quanti cognomi italiani non oltrepassano quella strada poco illuminata che separa l’“Italo” dal “barrio”?
Nei fatti, oggi, il Centro Italiano Venezolano aggrega solo una fetta della nostra comunità: un target ben delineato che non si mescola con quel 15 per cento (e forse più) di italiani residenti nella capitale che vivono nei quartieri poveri di Petare, la parrocchia con la percentuale più alta di connazionali secondo il censo dell’“Instituto Nacional de Estadìsticas” pubblicato nel 2005. A frequentare il Civ, quindi, sono probabilmente gli italiani e gli italo-venezolani più fortunati: quelli che, secondo il ministero degli Esteri, controllano un terzo di tutte le industrie locali, escludendo naturalmente quelle collegate al settore petrolifero. Un gruppo ben marcato e convinto, come Cristillo, che “più del novanta per cento degli italiani qui vive in condizione di agiatezza”.
Ma i nostri Centri Italo Venezolani, le nostre Case d’Italia non dovevano essere luoghi di riunione per tutti gli italiani? Il Civ di Caracas, nei sogni del suo fondatore Lorenzo Tomassi, non doveva essere espressione di una Collettività multiclassista? Sono domande alle quali oggi si preferisce non rispondere. O, chissà, si eludono perchè non si sa dare loro una risposta.
Denaro e Virtù
- II frequentatori del Civ appartengono ad una classe sociale medio-alta, è un luogo non alla portata di chiunque – afferma sicura Giuliana Ferri -. Inolte, le quote-extra sono sempre più frequenti e non tutti hanno le possibilità di far fronte alla spesa che rappresenta essere socio di uno dei nostri clubs. Non tutti hanno la possibilità di sostenere questi costi che crescono giorno dopo giorno e che incidono non più perifericamente nell’economia delle famiglie.
Ad esempio, a conti fatti, bolívar più bolívar meno, essere membri del Civ-Caracas richiede l’esborso mensile di circa 220 bolívares al mese; bolívares “fuertes”, ovviamente. E la cifra aumenta a 250 mila bolívares se ci si sposta a Maracaibo. Questo senza contare le quote-extra destinate a spese speciali, che possono trasformarsi anche in permanenti, come accadde in passato nel Civ di Caracas.
I giovani, in carriera ed in procinto di formare una famiglia, ed i pensionati sono le fasce più castigate. I primi, perchè non ricevono ancora uno stipendio che permetta l’aquisto di un’azione di un sodalizio e la spesa mensile che esso rappresenta, gli altri perchè con una pensione si possono fare solo miracoli. E questi non sempre comprendono il costo di gestione di un’azione di un club italo-venezolano.
Volente o nolente, c’è una barriera fissa. E così i meno abbienti devono accontentarsi di guardare dal basso le siepi fiorite, i saloni e tutte le infrastrutture sportive che, si sognava un tempo, dovevano essere accessibili a tutti gli italiani del Venezuela.
E i meno fortunati? “Non è stato fatto nulla – sostiene Ferri – per cercare di coinvolgerli…”.
E’ vero, così come lo è che non c’è Giunta Direttiva che, al momento di proporre la propria candidatura, non manifesti l’intenzione di trovare soluzioni eque che permettano di aprire il Civ alla Collettività. Promesse, sempre promesse. Tante e sicuramente in buona fede. D’altronde, di buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno. Al dunque, però, ci si dimentica del “futuro” della nostra Collettività e, quel che è più grave, del “passato”. Dei giovani e dei pionieri, di chi è chiamato a costruire e di chi, invece, ha già costruito tanto. Ci si dimentica anche di chi ha avuto meno fortuna e che andrebbe comunque messo in condizione di accedere ai nostri sodalizi.
- Degli indigenti – denuncia Pedro Paolucci, frequentatore della Casa d’Italia di Maracay – non si occupa nessuno. Ci s’interessa solo di chi ha denaro per fare donazioni o per comprare un’azione. Anche qui l’Italia è piena di ingiustizie.
Piccole oasi di tranquillità ma, non per questo, a salvo dalla crisi del Paese. Ecco, i nostri clubs soffrono anch’essi delle conseguenze delle decisioni, giuste o sbagliate, di chi ha in mano le redini del mondo.
- La ruota gira – spiega Franco Lualdi, presidente della Casa d’Italia di Caracas – e così anche i nostri club soffrono le conseguenze della crisi economica. Una ventina di centri sociali continuano le loro attività ma sono sempre più numerosi quelli che, come nel caso di Punto Fijo o Cumanà, hanno chiuso i battenti. Altri, ad esempio il Civ di El Tigre o quello di Ciudad Bolìvar, hanno fondato al loro interno scuole private, con cui potersi finanziare. Noi della Casa d’Italia riusciamo ancora a mettere tutto a disposizione gratuitamente ai nostri soci perchè, in quanto proprietari dell’edificio, affittiamo uffici.
Giovani e sportivi
Se gli adulti frequentano il Civ per i più disparati motivi, l’attenzione dei giovani è rivolta quasi esclusivamente alle strutture sportive.
- Certo che qui l’età media spaventa – ci dice Edoardo, 26 anni, entrando per la prima volta al Civ -. Ma non deve essere poi male venire ogni tanto: c’è la piscina, la palestra, spazi aperti…
Della stessa idea Maurizio Tagliatela che confessa di non frequentare il sodalizio ‘caraqueño’.
- Non sono socio… – aggiunge -, ma vorrei esserlo solo per utilizzare le istallazioni sportive.
Paolucci è più prudente. Ci dice:
- Sicuramente i giovani si recano ai nostri centri sociali per la pratica di qualche attività sportiva. Ma non si può fare di tutta l’erba un fascio. C’è anche chi ha altri interessi. C’è chi si dedica alla musica, chi al teatro, chi al ballo…
Lo sport, dobbiamo prenderne atto, è il vero punto di forza dei Centri Sociali italiani. Basti pensare ai “Giochi Sportivi Nazionali” dei nostri clubs, veri fiori all’occhiello della Collettività italo-venezolana organizzati ogni due anni da Fedeciv (la Federazione che raggruppa i sodalizi dal punto di vista sportivo). A questa ‘piccola Olimpiade’ partecipano dai tre ai quattro mila atleti. Se a questi, poi, sommiamo parenti, amici e conoscenti arriviamo anche a dieci mila persone in una sola città, dato che converte l’evento in una delle più importanti manifestazioni sportive del Paese.
Accando agli sportivi di Fedeciv, una frangia di giovani si dichiara assolutamente non attratta dalle realtà italiane in Venezuela. Paola, ad esempio, taglia corto ed afferma:
- Sono dall’altra parte del mondo per conoscere una realtà nuova, non per ritrovarne una vecchia che già conosco.
I tempi, si vede, sono cambiati e per gli italiani l’emigrazione può anche essere una scelta di vita più che una condizione imposta da situazioni economiche disastrose come quelle che circondavano i nostri pionieri nel dopoguerra. Si affronta e si vive diversamente. Si hanno meno paure, più curiosità.
Sempre polemica e assai schietta, Ferri espone il suo punto di vista:
- Io il Centro Italiano Venezolano di Caracas l’ho visto crescere. E posso dire che sono sempre meno i giovani che lo frequentano. Non si sentono rappresentati dalle Giunte Direttive che spesso, troppo sono inappropriate ed integrate da persone, a mio giudizio, non all’altezza della grande responsabilità che gli viene assegnata.
Separati nell’unione
C’è una solidarietà che nasce spontanea. E’ quella che germoglia dalla consapevolezza che tutti siamo emigrati o figli di emigrati.
- Qui siamo tutti amici – afferma Nicola Cicenia, presidente della Federazione delle Associazioni Italiano-venezolane. Poi, riferendosi all’unità che nasce trai connazionali all’interno dei centri sociali, aggiunge:
- Non c’è una separazione tra nord e sud, tipica della realtà italiana. Ci unisce un comune denominatore: aver vissuto l’emigrazione direttamente o di riflesso.
Anche così, però, esistono differenze. Basti pensare alle parole di Chiari che parla di un “micromondo creato da ognuno all’interno di quel piccolo mondo che è il Civ”.
Ferri corrobora quanto detto da Chiari.
- A me piace l’ambiente – spiega -, ma frequento chi dico io. Nel Civ c’è proprio di tutto: dalle signore eleganti, al signorotto colto o al cafone.
Certe differenze, anche assai sottili, si riflettono anche a livello gestionale.
- Manca la giusta coordinazione tra le vecchie e le nuove Giunte Direttive – denuncia Cicenia.
Una ulteriore barriera s’instaura tra chi vive nelle metropoli o no.
- I centri sociali della provincia risultano svantaggiati rispetto a quelli della capitale e delle grandi città: hanno difficoltà a reperire e scambiare notizie, richiedere ed ottenere servizi consolari – conclude Cicenia -. Si paventa il rischio di un sentimento d’abbandono e quindi la possibilità di dimenticare la nostra italianità.

1 commento:

  1. Si è commentato sul sito barbarameoevoli.wordpress.com:
    "Il problema sono anche i barrios che sono nati sulle colline di fronte: sempre più, come del resto l’intera Caracas, sembra un fortino da cui tentare, invano, di isolarsi dal mondo"

    La mia risposta:
    Essì, che fastidio questi poveri. Così sfacciati da permettersi il lusso di un ‘rancho’ vista Centro Italo, rovinando così ai soci il tipico paesaggio collinare caraqueño.
    Sono convinta che la ricchezza personale, se guadagnata onestamente, non debba essere motivo di vergogna o sensi di colpa (tralasciando un discorso economico più globale…). Ma, nello stesso tempo, credo che si debbano evitare le CASTE NON DETTE che si creano quando questa ricchezza viene troppo ostentata. ‘Caste’, circoli chiusi, che basano la loro potenza e la nobiltà del loro nome sul fatto di aiutare connazionali indigenti con i quali, però, quasi mai entrano in contatto. “Il povero serve perchè, se aiutato, fornisce prestigio al ricco. Ossia a me. Quindi lo sostengo e faccio tanti bei discorsetti per lui, basta solo che non entri all’Italo” – sembrano pensare in molti – rovinando lo status medio dei suoi frequentatori che qui trovano ILLUSIONI di felicità, ricchezza, società più giusta, gente più buona.
    Questo gli indigenti lo sanno. Gli italiani ‘poveri’ non vanno all’Italo, gli italiani ‘poveri’ diventano venezolani. Prendono la metropolitana, la camionetta la sera. Non hanno il BMW per andare da Altamira a Las Mercedes. E solo per questo non è giusto che siano dichiarati NON ALL’ALTEZZA di alcuni club, che nascono con un intento d’integrazione e solidarietà, solo perchè la RICCHEZZA VIENE COSIDERATA UN VALORE MORALE, come mi è stato dichiarato. E non è giusto che le bocche di dichiarazioni simili siano decorate da medaglie della repubblica italiana.
    Sono pienamente cosciente della pericolosità di certe zone, della loro insicurezza. Ma credo che sia moralmente vergognoso rinchiudersi in un castello dorato per timore della povertà.

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