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lunedì 8 febbraio 2010

Io, italiana di Petare

di Monica Vistali
CARACAS – All’interno del suo ‘rancho’ di Petare, la 69enne Maria Castelli conclude con un sorriso di rassegnazione il racconto della sua vita. Ed ammette: “Beh, non tutti gli emigranti ce l’hanno fatta”.
Le statistiche sembrano darle ragione. Secondo il censo dell’Ine-Venezuela pubblicato nel 2005, infatti, è Petare - tra le zone di Caracas di maggior degrado e pericolosità - il quartiere con la più alta concentrazione di connazionali, ben il 15 per cento. Ed è proprio Petare, agglomerato urbano ed umano che si snoda polveroso tra baracche fatiscenti e mercati improvvisati, il capolinea di Maria, che da 40 anni vive in uno dei suoi duemila ‘barrios’, Las Estrellas. Nel cimitero lì vicino ha seppellito due nipoti ed un figlio ventenne che - come tanti altri - avevano scelto la ‘via alegre’ della droga, come la chiama lei. Un vicolo chiuso, per tutti, da una pallottola. Di un secondo figlio conserva solo una fotografia ingiallita accanto ad una placca di metallo della bandiera italiana, sola superstite dopo uno schianto in moto.
- Forse non ero destinata a finire così - tentenna triste -. Ricordo i bagni al mare di Monterosso, di Rio Maggiore... Adesso avrei solo il desiderio di morire in Italia - ci confessa - ma i soldi non mi permettono neppure di sognarlo. Se non ho potuto andarci in tutti questi anni, non penso di poterlo fare ora... E poi, dove andrei? Lì non c’è più nulla per me.

Croci
Conversare con Maria Castelli è viaggiare nei porti liguri degli anni Cinquanta, nelle ville ‘bene’ del Nord Italia, nei salotti e nei collegi cattolici. Finchè i toni nostalgici lasciano spazio alla tristezza e lo scenario si sposta in America latina, nelle baraccopoli della povertà.
Era il 1955 quando Maria, studentessa di buona famiglia in un collegio religioso di Livorno, s’innamora di un militare della marina venezolana in sosta al porto.
- Avevo quattordici anni - ci racconta - quando ho lasciato la mia città. Avevo deciso di sposarmi ma mio padre, generale dell’aviazione, non ne voleva sapere. Per lui, quelle che andavano con i marinai non erano ragazze ‘serie’. Invece io ero innamorata, pronta per iniziare la mia favola.
Maria abbandona la rigidità familiare (“mio padre mi faceva tagliare le mele con forchetta e coltello” ci dice sorridendo) e sceglie di seguire il suo amore. I genitori la ripudiano - non la raggiungeranno nemmeno il giorno del suo matrimonio - ma lei è decisa e, accompagnata da due tenenti venezolani, con un aereo arriva a Caracas.
- Mi ricordo ragazza, spiando dal finestrino dell’automobile. Uno dopo l’altro, splendidi paesaggi si alternavano a quartieri eleganti. Poi pian piano la vista cambiava: baracche fatiscenti, povertà. Mi hanno lasciato al Barrio San Josè de Cotiza, in uno di quei ‘ranchos’ pericolanti. Ero ancora una bambina. È stato durissimo.
Il suo uomo era l’ultimo di undici fratelli. Maria ricorda il capofamiglia con il vizio della bottiglia, le botte, la povertà che si respirava in quella grande stanza dalle pareti scrostate dove tutti i vicini si ritrovavano per guardare l’unica tv della zona. E le chiacchere maligne: “Ecco l’italiana... si è sposata perchè pensava di trovare petrolio nel patio!”.
Maria smette di raccontare. Lancia solo qualche accenno, null’altro.
Con poche parole ti dice che si è separata dal marito - che le ha rubato i pochi risparmi - e che ha poi avuto tre figli con un altro uomo. Un altro sguardo vuoto. Riaffiorano le ore di attesa fuori dalle prigioni dov’era rinchiuso suo figlio, condannato a cinque anni per droga. Una ‘mariquera’, dice lei. Los Flores de Catia, Yare, Rodeo. “Era umiliante... e duro quando ti passava sotto il naso il poliziotto che spacciava...”.
Tante le ingiustizie, tanto il lavoro.
- Ho fatto l’hostess, la domestica in casa di ‘doña Blanca’, l’addetta in un’azienda di viti. A Petare ci sono quattro mense gratuite per bisognosi e in passato venivano regalati elettrodomestici a tutti quelli della zona. Ma io non credo nei contentini: ho visto molte donne mangiare a sbaffo, spendere i risparmi in birra e poi dormire tutto il giorno invece di lavorare... Non è colpa del Paese, il Venezuela resta divino. Ma, davvero, non immaginavo di dover lavorare tanto per ‘conseguirme la arepita’.
Oggi Maria Castelli stira due volte a settimana. Arrotonda con il ‘San’: un legale giro di prestiti fra persone di fiducia che poi pagano al gestore del denaro una percentuale. Un ‘giochetto’ da 2000 BsF l’anno, senza il tramite di nessuna banca.
- Certo non mi piango addosso. Ricordo quello che diceva la mia bisnonna: ‘Tutti vanno in piazza per scambiarsi le croci, ma poi ognuno torna sempre a casa con la sua’.

‘Ranchos’ e Consolati
Il ‘rancho’ di Maria non ha quel gusto tipicamente venezolano fatto di casette appese alle pareti e suppellettili vari. E’ di elegante stampo europeo, ben curato, con divani e tende sui toni del rosso e del nero.
- Ho saputo della morte di mio padre solo due anni dopo il decesso, quando dalle carte sono risultata unica erede e mi hanno contattato. Ma l’avvocato si è preso quasi tutto e con il denaro restante non potevo comprarmi un appartamento nuovo. Poi non riuscivo a pensarmi in un quartiere chic, così ho sistemato il mio ‘rancho’. Ora posso chiudere le finestre, immergermi nella mia casa e, per poco, dimenticarmi di Petare: della povertà, del rumore dei grilli che negli anni si è trasformato in boato di pistole, delle quattro casette che oggi sono diventate una baraccopoli.
Dimenticare per poco, certo. Finchè non devi recarti al Consolato per chiedere assistenza sociale, finchè ti accorgi che “la copertura sanitaria non basta”, finchè capisci - sotterrando i tuoi figli - che “qualcuno vale più da morto che da vivo”.
Maria, da quattro anni negli elenchi del Consolato, oggi beneficia dell’assicurazione sanitaria di Rescarven. Ma - anche se dovrebbe operarsi ad una gamba - non crede che chiederà il rinnovo dell’assicurazione perchè in qualsiasi caso, per quello di cui ha bisogno, questa “non è sufficiente”. - A causa delle brutte esperienze con mio padre e mio marito, non sopporto i militari per principio, quindi nemmeno il presidente Chávez. Ma con i Centri Diagnostici Integrati ‘l’ha proprio azzeccata’. Lì mi hanno regalato gli occhiali da vista, mi hanno curato un’intossicazione, mi hanno operato. La terapia è stata meravigliosa, i medici preparati ed ben educati. Al Consolato è più umiliante: quando chiedi un aiuto sembra di elemosinare... Purtoppo, sembra che gli italiani, nel possedere un po’ di autorità, diventino arroganti.
Maria non si risparmia in critiche.
- Elogio i Cdi ma credo che le risorse spese per i moduli ‘Barrio Adentro’ dovevano essere investite nella rinascita degli ospedali pubblici: quando ho dovuto andarci dovevo portarmi da casa i guanti in lattice e le garze...
Il processo bolivariano ha portato speranza e benefici ma la strada è ancora lunga. E tanti sono stanchi di aspettare. Così, come testimonia Maria, se “prima la gente ti sparava se parlavi male di Chàvez”, ora si è “liberi di mandare tutti i ‘rossi’ a quel paese”.

Italiani
Due italiane: Maria da Petare e Franca dal Junquito. Si parlano spesso al telefono e si raccontano le giornate, i pettegolezzi, i problemi.
- Anche la mia amica ha seriamente bisogno dell’aiuto del Consolato. Ma come fa ad andarci? Ha problemi di salute e fino a La Castellana il tragitto in taxi è troppo costoso. Io vado con i mezzi pubblici anche se qui a Petare non accettano il ‘carnet de la terzera edad’ e devi pagare. Sembra difficile da credere, ma spesso non si ha nemmeno quel solo bolivar per l’autobus, immaginiamoci per un taxi...
Maria ride di gusto. Fuori dai ‘club italo’, dalle associazioni, dalle poltrone di potere, dai salotti.
- No, non sono mai stata in quei posti lì. Io, gli unici italiani che frequento sono quelli venezolani come me!

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