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giovedì 25 marzo 2010

Elezioni: dalla Sicilia a Caracas per salvare il paesello natio

L’aspirante sindaco di Limini, Sebastiano Mesumeci è stato in Venezuela per incontrare i 200 liminesi che compongono un terzo del suo intero elettorato


di Monica Vistali

CARACAS – Un aspiran­te sindaco messinese in campagna elettorale a Caracas per risollevare le sorti del suo paesello de­stinato a scomparire. Un caso più unico che raro quello di Sebastiano Me­sumeci, candidato nelle fila del Pd, che ha dovu­to attraversare l’Oceano per incontrare quei più di 200 potenziali elettori che da anni risiedono in Venezuela, dislocando così ben un terzo delle 600 persone che com­pongono l’intero eletto­rato del dimenticato pa­esino di Limina. Come dichiara l’editore Eligio Restifo, “le elezioni di maggio le decidiamo noi in Venezuela”.
Mesemuci è intenziona­to a ripopolare il paesino natio da cui tutti conti­nuano costantemente a scappare, soprattutto in Venezuela.
- Dopo l’ultima guerra - spiega a La Voce - Limina contava 2500 abitanti e prospettive di sviluppo ancora più scarse di quel­le attuali. Così la gente ha iniziato ad emigrare, prima in America - spes­so in Venezuela dove si è creata pian piano una piccola comunità - poi nel Nord Italia o in Ger­mania. Oggi ci sono li­minesi in 39 Paesi nel mondo.
Il trand, da allora, non ha più cambiato rotta. Per per morte naturale o per emigrazione, la gente continua ad andarsene e, come esito di questa ten­denza, è stata prevista la chiusura demografica del paese nel 2040.
- Il Sole 24ore ha posizio­nato Limina, come svi­luppo e possibilità di cre­scita, all’ultimo posto tra i comuni di Messina, cit­tà costantemente in coda alle classifiche. È normale che, soprattutto i giova­ni, vogliano scappare.
Oggi, in tutta Italia, le nuove generazioni cerca­no all’estero quello che il proprio Paese non è in grado di offrire. Limina, più che un’eccezione, rappresenta l’apice di una crisi nazionale.
Come spiega Mesume­ci, il problema di Limi­na risiede soprattutto nell’inefficiente sistema occupazionale.
Come rimedio alla man­canza di offerta comune a tutto il Mezzogiorno, il candidato propone una serie di iniziative com­merciali basate in partico­lar modo sui prodotti ti­pici della regione. In testa al programma, quindi, un centro di macellazione e un’impresa di trasforma­zione carni, un caseificio, una filiera commerciale e punti di produzione per prodotti agricoli rinoma­ti come olio d’oliva e for­maggi. Parallelamente, la creazione di un marchio doc per la gastronomia locale.
L’aspirante sindaco, inol­tre, pensa a rispolverare un vecchio programma di forestazione che conti sui finanziamenti dell’Unio­ne Europea e progetta la creazione di un’impresa agrituristica per la quale utilizzare case popolari non assegnate.
- Ho parlato del mio pro­gramma lo scorso sabato durante un incontro che un gruppo di liminesi ha organizzato all’Hotel Co­liseo. Una riunione im­portante tra compaesani per cui devo ringraziare il presidente dell’Asso­ciazione Siciliana, l’edi­tore Eligio Restifo e tutti quelli che si occupano della mia campagna elet­torale in Venezuela: Giu­seppina Palella, Filippo Occhino, Emilia Noto, Nino Carbone.
L’incontro, secondo Me­sumeci, ha “recuperato il legame con gli elettori” che, da tempo, incon­travano solo i candidati dell’attuale maggioranza.
I flussi migratori tocca­no Mesumeci non solo dal punto di vista poli­tico. Suo padre è stato, infatti, uno di quei tanti liminesi che negli anni Sessanta partivano per la Germania e inviavano a casa le rimesse per la famiglia. Per Mesumeci quegli anni da ‘orfano’ sono “gli anni in cui davo a mio padre del Voi, con distacco”, sono “i racconti della solida­rietà tra compaesani, del duro lavoro, delle rigide norme tedesche, tanto lontane dal regime liber­tario della Sicilia”.
Ma non è tutto. L’aspi­rante sindaco è felice­mente sposato con una figlia di liminesi emigrati a Caracas, che ha incon­trato per la prima volta quando lei era in vacanza nel paesello dei genitori. Un amore travolgente: la bella ha lasciato il suo Studio legale nella capi­tale latinoamericana per una vita da casalinga a Limina. Diciamo che Me­sumeci ha iniziato con la moglie il nuovo avvenire di quel piccolo, piccolo paese che - speriamo - torni a ripopolarsi.

Italiani in Venezuela. Il punto con il Console Davoli

Al termine di una serie di incontri con la Collettività in tutto il territorio il Console generale d’Italia in Venezuela fa il punto della situazione. Tra i temi affrontati i tagli dei finanziamenti, l’assistenza, i passaporti, i sequestri e gli espropri.

di Monica Vistali

CARACAS – Presenza, accessibilità, concretezza e risposta pronta. Sembrano essere queste le parole d’ordine del Console Generale di Caracas, Giovanni Davoli, che dal suo arrivo a giugno ha già visitato numerose città del Venezuela per incontrare personalmente la Collettività, ascoltarne le problematiche e, quando possibile, trovare le soluzioni. Tagli nei finanziamenti, assistenza diretta, passaporti e documentazioni varie, sequestri, espropri: ognuno dice la sua. - La mia priorità sono gli incontri pubblici perchè permettono di ridurre la distanza tra il connazionale e l’Istituzione – spiega Davoli – soprattutto per quanto riguarda le città lontane dalla capitale. Lo scopo è quello di rendersi accessibili, dando la possibilità ai cittadini di esprimere necessità, esporre problematiche, manifestare desideri.
Il diplomatico, dall’agenda fitta, ha già toccato le città di Maracay, Valencia, Barquisimeto, Porlamar, Puerto la Cruz, Valle de la Pascua, Puerto Ordaz, Ciudad Bolivar, oltre alla Guiana francese e le isole di Trinidad y Tobago, Santa Lucia e Antille Olandesi, sulle quali ha la competenza. Prossima tappa: Barinas. Una scelta logistica non affidata al caso, ma pensata per raggiungere comunità dove non esiste l’Ufficio Consolare Onorario o dove da anni non si recavano diplomatici di livello. Un deficit in alcuni casi gravissimo: gli italiani di Valle de la Pascua, ad esempio, non avevano mai ricevuto la visita di un Console.
In generale, la Collettività assiste numerosa agli incontri con il diplomatico. All’interno dei Centri Sociali italiani sono numerosi i connazionali che, interpellati dai rappresentanti della Comunità, dai Vice Consolati e dai Centri stessi, assistono non già da semplici spettatori ma esprimendo le proprie preoccupazioni.
- Spesso sono problemi che si trascinano da anni – racconta il Console Generale – soprattutto nel caso di città periferiche. Mi chiedono come risolvere difficoltà inerenti la cittadinanza o come ottenere il sussidio in caso d’indigenza.
I sedici Uffici Onorari, cui si aggiungono i Corrispondenti consolari, “lavorano tanto ed in condizioni difficili” ma proprio in quanto ‘onorari’ “non sempre hanno la preparazione sufficiente per rispondere ai bisogni dei connazionali”. Qui entra in gioco l’importanza della figura diplomatica concretamente presente, accesibile.
- Anche un solo caso risolto giustifica il viaggio – afferma sicuro il Console Davoli.

Il Consolato a Caracas
Le ultime due Finanziarie disposte dal governo hanno sentenziato severi tagli nel capitolo delle risorse destinate agli Italiani all’estero. Anche se le decurtazioni alla rete consolare non hanno toccato nessun Paese dell’America latina, i fondi disponibili nelle casse diplomatiche sono sempre minori. La priorità è quindi una riorganizzazione del lavoro a livello centrale e nelle singole sedi.
- Lo sforzo è nella direzione di una informatizzazione del lavoro. Ad esempio, ora non dialoghiamo più attraverso i corrieri diplomatici, che gravavano fortemente nei bilanci, ma attraverso la posta elettronica certificata. Un’azione necessaria iniziata, in ritardo rispetto ad altre sedi, solo con il mio insediamento. Certo – ammette il Console – la difficoltà è cambiare gli automatismi dei funzionari. Ma l’impegno è necessario.

Il capitolo ‘Assistenza’
All’interno del Consolato di Caracas, l’ufficio Assistenza è il più frequentato e ogni giorno aumenta il numero di coloro che richiedono un sostegno di tipo economico. Nel 2009 gli assistiti sono stati 700, più un migliaio di cittadini beneficiari dell’assicurazione sanitaria Rescarven. Ma, a fronte di una mole sempre maggiore di richieste, la quota di risorse si fa sempre più scarsa.
- Ogni anno i bilanci sono tagliati. Per il 2010 è stata prevista una riduzione del 40 per cento per quanto riguarda l’assistenza diretta – spiega il Console – da sommarsi all’ulteriore taglio del 40 per cento deciso per il 2009. Inoltre, solo quest’anno le disponibilità per Rescarven sono scese del 25 per cento.
L’assistenza del Consolato riguarda il sussidio economico classico dato agli indigenti (un importo massimo di BsF 4.900 annuali, che può aumentare in casi straordinari con l’autorizzazione di Roma), la copertura sanitaria Rescarven (negata a chi già beneficia del sussidio e che raggiunge un massimo di BsF 30.000 l’anno) e il sostegno ai detenuti italiani in Venezuela (attualmente 68). Nel 2009 solo in tre casi si è fatto ricorso al sussidio economico straordinario, solo quattro assistiti hanno chiesto l’ampliamento della copertura sanitaria e una sola volta si è attinta una cifra extra dal fondo speciale previsto dall’accordo con Rescarven.
Con la riduzione delle risorse, è fondamentale verificare le effettive necessità dei connazionali. Per la selezione dei beneficiari, si effettuano quindi controlli a campione e si incrociano i dati personali (situazione pensionistica, condizioni di vita, stato di salute) con le dichiarazioni dei richiedenti stessi. Privilegiati coloro che non hanno reddito, pensione e assistenza sanitaria.
- Quasi sempre – spiega il Console Davoli – il sussidio è consegnato in due quote. Questo permette di aspettare il bilancio di assestamento del Ministero del Tesoro che, solitamente tra giugno e luglio, integra il budget stabilito ad inizio dell’anno. La quota extra, nel 2009, “è stata corposa” assicura il diplomatico.
Gli aiuti del Consolato vengono consegnati alla Collettività anche trasversalmente, “attraverso gli ‘atti di cottimo’ con le diverse Associazioni italiane sparse sul territorio” che, secondo il Console, “rendono di più e stimolano il volontariato sociale”. Esempio degno di nota il contributo offerto dalla sede consolare per la creazione dell’ambulatorio campano a Santa Monica, nella capitale, o per quello a Valencia.
Inoltre, dopo essersi resi conto che erano troppo concentrati nella sola città di Caracas, gli ‘atti di cottimo’ sono stati diretti anche alle comunità italiane della provincia come, ad esempio, quelle di Carupano o Upata, di notevole entità.

Restare, comunque
La comunità italiana in Venezuela, anche grazie all’arrivo di nuovi emigranti, è continuamente in crescita. Quello di Caracas è oggi il settimo – ottavo Consolato italiano a livello mondiale. In questi anni sono comunque tanti, tra gli aventi diritto, a fare richiesta della cittadinanza o del passaporto italiani.
Nel 2006 il quotidiano torinese ‘La Stampa’ denunciava la “fuga degli italiani dal Venezuela di Chavez” e i 13 mila passaporti emessi dal Consolato generale di Caracas solo in quell’anno, con una media di 50 al giorno. Oggi le richieste di cittadinanza da parte degli italovenezolani sono più o meno 110 mila. Ciononostante, il Console Davoli non registra una grande migrazione verso l’Italia. Cittadinanza e passaporto sembrano quindi più un’opzione ‘just in case’, documenti da avere nel caso si decida di andare – o tornare – in Italia. E, spesso, una scorciatoia per il passaporto europeo.
Il diplomatico, inoltre, ci tiene a sottolineare la resistenza del personale di ruolo che “viene malvolentieri in Venezuela”, intimorito dalle notizie del Paese che si hanno in Italia.

Sequestri…
Tanti i timori dei connazionali. Ma la preoccupazione maggiore riguarda la sicurezza della persona e dei beni o, più semplicemente, il fenomeno dei sequestri e la questione degli espropri.
In Venezuela il sequestro è una vera piaga sociale che colpisce anche la comunità italiana. Nel 2007, ad esempio, sono stati 26 i sequestri subiti da cittadini italiani. Negli anni, i dati non sono diminuiti. L’ultimo caso quello del 22enne messinese Francesco Giunta Pollino, rapito il 7 febbraio e rilasciato il 25 febbraio scorso. Nel 2004, anche il nonno di Francesco fu sequestrato e venne trattenuto dai rapitori per due mesi.
Tornando indietro nel tempo, nel triennio 2004-2007 sono stati 43 gli italiani sequestrati secondo i dati della Fivavis (Fondazione italiana di aiuto alle vittime dei sequestri). Di questi, 11 nello stato Zulia: regione calda e petrolifera al confine con la Colombia.
- I connazionali devono sapere che le istituzioni italiane hanno la volontà e i mezzi per affrontare queste situazioni difficili – afferma il Console Davoli -. C’è anche un funzionario preposto all’interno dell’Ambasciata: l’Esperto antisequestri. Forniamo supporto e consigli alle famiglie delle vittime, facciamo pressione sulla polizia venezolana. L’importante è che i famigliari ci contattino, denuncino. Al contrario, non possiamo fare nulla.
Per contrastare il fenomeno, è fondamentale la cooperazione con le forze dell’ordine venezolane. Davoli ha riscontrato una buona risposta da parte delle autorità venezolane, con le quali – afferma – c’è “un buon rapporto di collaborazione” che fa sì che “quasi sempre i casi finiscano bene”.

… e espropri
Paura per se stessi e preoccupazione per le proprietà. Le recenti espropriazioni attuate dal governo venezolano non lasciano sonni tranquilli agli italiani proprietari di aziende ed imprese.
Secondo un recente sondaggio della ‘Voce’, la metà degli italiani intervistati presso il Centro Italiano venezolano di Caracas teme di essere espropriata addirittura della propia casa. Questo ovviamentente non è mai accaduto. Si è però proceduto ad espropri previsti dalla “Legge Organica che riserva allo Stato i Beni e i Servizi Connessi alle Attività Primarie degli Idrocarburi” ed a quelli di utilità pubblica.
“La nostra preoccupazione è che non ci pagheranno il giusto prezzo per le nostre ditte” denunciava mesi fa Vito Tridente Sgherza alla stampa locale del suo paese di origine, Molfetta (Bari), dipingendo la sua condizione di espropriato. Il mondo politico italiano era con lui. Il 26 maggio scorso, infatti, alcuni parlamentari del PD, tra cui la Senatrice Anna Finocchiaro, hanno firmato una interpellanza urgente di solidarietà con gli imprenditori d’origine italiana vittime degli espropri in Venezuela. Claudio Micheloni, primo firmatario della mozione, denunciava l’esproprio di 76 imprese che lavoravano nel settore degli idrocarburi, “molte delle quali di proprietà di italo-venezolani”.
Poco distante arrivò a “Italians”, il blog del “Corriere della Sera” gestito da Beppe Severgnini, la lettera di Giancarlo Volante (“Venezuela. Proprio oggi sono venuti a confiscarci degli autotreni”) in cui si denunciava un esproprio accaduto “senza avere la possibilità di difenderci attraverso le autorità competenti”. Alla lettera – e indirettamente alle altre 14 società proprietà di cittadini italo-venezolani – rispondeva prontamente il nostro Ambasciatore Luigi Maccotta. Il diplomatico illustrava le iniziative attivate dal governo italiano per sensibilizzare le autorità locali (Ministero dell’Energia, Azienda Petrolifera di Stato, Ministero degli Esteri, Gruppo Parlamentare di Amicizia italo-venezolano) e spiegava come fossero stati fatti presenti il danno e il disagio che si venivano a creare in seno alla collettività. Rimarcava, comunque, che una legge di nazionalizzazione rientra nell’autonoma sfera di sovranità dello Stato.
Anche il Console Davoli, giustamente, crede che non si possa “contestare una azione dello stato sovrano se fatta nel rispetto della legge” e, come l’Ambasciatore Maccotta, sottolinea che l’unico atto possibile da parte delle Istituzioni italiane è quello di fare pressione affinchè venga rispettata quella parte della normativa che prevede indennizzi equi, tempestivi ed effettivi.
- Le istituzioni italiane – asserisce il Console – sono impegnate su questo fronte con la stessa forza e con la stessa efficacia degli altri paesi europei. Il loro intervento diplomato è risultato essere in molti casi prezioso.

02/09: Un leghista in Venezuela

Febbraio 2009. La Commissione Esteri della Camera, presediuta dall’On. Stefano Stefani, ha visitato Messico, Guatemale e Nicaragua ed è poi arrivata a Caracas per incontrare la comunità italiana in Venezuela. Ho incontrato il Presidente della delegazione, deputato della Lega Nord Padania, noto anche per l’estrosità delle sue offese nei confronti di altri popoli, per ascoltare alcune sua opinioni circa la missione in Venezuela. Alla fine, ci si chiede: E’ davvero una persona all’altezza della carica che ricopre?

di Monica Vistali

CARACAS – Tra contraddizioni e qualche incertezza, il Presidente della Commissione Esteri della Camera Stefano Stefani, deputato della Lega Nord Padania, ha esposto le sue opinioni in riferimento alla missione che ha portato la delegazione da lui presieduta ad incontrare le Istituzioni e le Collettività italiane in Messico, Nicaragua e Guatemala. “E’ una visita per rafforzare i rapporti d’amicizia e per capire le questioni di cui ci occupiamo - ha dichiarato -. Abbiamo cercato di rafforzare l’amicizia in tutti i Paesi in cui siamo stati”.
L’on.Stefani, sottosegretario al Turismo nel precedente governo Berlusconi e politico noto per l’estrosità delle sue offese nei confronti di altri popoli (definì i tedeschi come “invasori che vengono in Italia a fare gare di rutti”), ha voluto sottolineare che “Hugo Chavèz ha ricambiato i saluti del nostro Presidente del Consiglio, considera l’Italia un Paese amico e Silvio Berlusconi un leader amico”. Ha poi aggiunto: “Da quel che ho visto questo sentimento è ricambiato, i nostri cittadini vogliono bene al Venezuela. Non potrebbe essere diversamente: qui ci sono quasi un milione di persone di discendenza italiana”.
Paradossalmente per un Presidente della Commissione Esteri, l’on.Stefani, quando interrogato sulle prospettive future riguardanti la Collettività italovenezolana a seguito di questa visita, ammette di non occuparsi particolarmente delle politiche riguardanti gli italiani all’Estero poichè queste “sono curate nello specifico dai miei colleghi” e c’è “un Comitato permanente che si occupa di queste cose”.
“A seguito di questi incontri non so cosa cambierà - dice - ma secondo me dovrebbe necessariamente cambiare la legge elettorale degli Organi di Rappresentanza perchè, così com’è, non funziona. Forse - continua - dev’essere cambiato anche il Cgie”. L’on. Stefani riconosce la sua ignoranza in materia quando ammette di non sapere se Comites e Cgie siano realtà importanti oppure organismi sopprimibili. Quello che dice, però, è che “dovrebbero essere regolamentati in maniera diversa”.
Prevedibile l’opinione del deputato davanti alla comparazione tra gli italiani emigrati all’estero ed i numerosi immigrati che arrivano in Italia. Se i nostri concittadini con la valigia sono definiti una “ricchezza”, lo stesso non vale per “gli extracomunitari: non sappiamo come affrontare la situazione e regolamentarne l’afflusso”. L’on. Stefani riconosce però che, accanto a “questi marocchini e tunisini che vanno a rubare e a delinquere” ci sono “extracomunitari che hanno fatto molto. Ad esempio, in alcune zone, se loro non ci fossero stati avremmo dovuto chiudere le fabbriche. E poi - continua - ci sono quelli che arrivano in Italia per cercare lavoro ma non lo trovano. E se non lo trovamo vuol dire che le leggi che gli hanno permesso di arrivare nel nostro territorio sono sbagliate”. Il delegato immagina poi questa “gente che arriva con la famiglia e sente il figlio dire ‘Papà ho fame’ o ‘Mamma ho fame’... Cosa dovrebbe fare?” si chiede il parlamentare.
Interessante la visione dell’on. Stefani per quanto riguarda la promozione della lingua e della cultura italiana all’estero, tanto auspicata durante l’incontro della Delegazione con gli esponenti della Collettività: “La cultura italiana è un mezzo tra gli altri. Io sono un imprenditore e guardo sempre il mio fine: il business. Ad esempio, nel sistema cultura c’è anche la cucina. Io mi sono battutto perchè ‘cucina italiana’ significasse davvero ‘cucina italiana’ e possedesse particolari requisiti, soprattutto per quanto riguarda gli ingredienti di base. Quando era di moda la cucina italiana - ricorda ancora sbigottito - c’era il marocchino che andava a New York e apriva non solo una pizzeria, ma direttamente un ristorante italiano!”.

Sei milioni di voti bolivariani in vista del 2012

Era lo scorso febbraio. Con il 54% venne
accettata la riforma costituzionale proposta dall’Esecutivo per la rielezione indefinita. E
per il presidente si concretizzò la possibilità di una terza candidatura nel 2012.
di Monica Vistali

CARACAS (16 febbraio 2009) - Al secondo referendum, e con “più di sei milioni di voti bolivariani”, Hugo Chavez ha vinto. Secondo il primo rapporto del Consiglio Nazionale Elettorale, il 54,36% dei venezolani ha votato “si” alla riforma costituzionale proposta dall’Esecutivo che permetterà la rielezione illimitata delle cariche a voto popolare, tra cui quella di Presidente della Repubblica. Ora il “comandante”, superato il limite degli articoli 160, 162, 174, 192 e 230 che impedivano la rielezione per un terzo mandato consecutivo di Presidente, governatori, deputati e sindaci, potrà presentarsi alle elezioni del 2012 per consolidare il “Socialismo bolivariano del XXI secolo”: l’ultima rivoluzione del XX secolo e la prima del XXI secolo a livello mondiale.
Poco dopo la proclamazione dei risultati, il leader del PSUV si è affacciato al balcone del palazzo presidenziale Miraflores di Caracas per giurare solennemente, attraverso le parole dell’apostolo San Paolo: “Mi consacro integralmente e definitivamente al pieno servizio del popolo, per tutto il resto della mia vita. Giuro che, a meno che il popolo decida il contrario, questo soldato sarà candidato alle elezioni del 2012 per governare il Paese tra il 2013 e 2019”. Dopo aver felicemente sottolineato l’affluenza registrata alle urne, che supera la soglia del 70%, il Presidente ha definito il risultato del referendum come “la vittoria della verità contro la bugia di coloro che negano la patria, una vittoria su tutta la linea”. “Ve lo avevo promesso: se voi non mancate, nemmeno io mancherò. Oggi – ha proseguito il leader nella sua tradizionale camicia rossa – avete aperto le porte al futuro ed avete definito il mio destino politico, che è anche il destino della mia vita”. Con una voce strozzata che sorvolava la moltitudine di “fedelissimi” arrivati per acclamarlo da ogni zona del Paese con applausi, canti e bandiere rosse, il “soldato del popolo” ha poi letto il messaggio arrivatogli, subito dopo la proclamazione, direttamente dall’amico Fidel Castro: “Carissimo Hugo – scrive il leader cubano – congratulazioni a te ed al tuo popolo per una vittoria che, per la sua grandezza, è impossibile calcolare”.
Ai rappresentanti dell’opposizione, che ritengono la consulta incostutuzionale in quanto proposta già rifiutata nel referendum 2007, non sono stati concessi spazi sino alla conclusione del messaggio presidenziale, durato quasi due ore, dato che il leader ordinò di ritrasmettere a catena, in ogni emittente, la sua “fiesta roja rojita”.
L’appuntamento con le urne è iniziato all’alba, quando i fedelissimi del Presidente hanno attraversato le zone popolari diffondendo ad altissimo volume i noti “tocchi di Diana” per svegliare il popolo votante che poco dopo si è recato nelle 34.322 sezioni dei seggi, aperti sin dalle 6 del mattino. Per controllare la regolarità delle elezioni sono stati incaricati 60 mila osservatori per ciascun schieramento oltre a 98 rappresentanti delle organizzazioni internazionali. Il Cne (Consiglio nazionale elettorale) ha coinvolto anche circa 30 mila militari per controllare che venga mantenuto l’ordine pubblico. Prima del voto, Chavez aveva comunque assicurato l’accettazione pacifica di qualsiasi risultato ed aveva intimato che chiunque avesse voluto “generare violenza” sarebbe stato “polverizzato dal popolo e dal Governo rivoluzionario”.
Giovedì, davanti alla vastissima platea di simpattizzanti e militanti venuti da tutto il Venezuela per il corteo di chiusura della campagna e riuniti nella centrica Avenida Bolivar di Caracas, il Presidente disse: “E’arrivata l’ora della vittoria definitiva per la rivoluzione”. Avvertì poi che con le elezioni si sarebbe “abbattuta una nuova barriera storica” indispensabile per “consolidare il Venezuela socialista” e si sarebbe definito così il suo “destino politico”. Indispensabile però “una grande forza unitaria, organizzazione e pianificazione” per conquistare “una vittoria storica, una grande vittoria per Ko” nel referendum. “L’immensa maggioranza dei venezolani e delle venezolane sa – concluse il Presidente - che non si tratta di perpetuare Chavez al potere o d’instaurare una tirannia. Si tratta di dare a tutti nuovi diritti, più di quelli già contenuti nella nostra avanzatissima Costituzione”, Il Presidente, spronando il popolo a rifiutare la “bugia oppositrice” del “perpetuarsi della dittatura chavista”, dichiarò poi che con la vittoria degli “esqualidos oligarcas” dell’opposizione si sarebbero arrestati “i progressi della rivoluzione e dei programmi socialisti”. Per contro, i fautori del “no” negarono le accuse sostenendo che la rielezione illimitata avrebbe “monopolizzato il potere nelle mani del Presidente”, in carica dal ’99, perpetuando “l’insicurezza, l’inefficenza, i bambini di strada” ed eliminando la proprietà privata.
Per i venezolani questa è la quindicesima chiamata alle armi indetta dal Presidente Chavez. L’ultima, le elezioni regionali dello scorso 15 novembre, avevano visto il Partito socialista del presidente Chavez conquistare, per la prima volta senza alleati, 17 dei 22 Stati del Venezuela. L’opposizione, vincente nel Districto Capital ovvero la capitale Caracas, festeggiò però la riconferma delle ricche regioni di Zulia e Nueva Esparta e la conquista di Miranda, Carabobo e Tachira.

mercoledì 24 marzo 2010

Fibromialgia, la malattia del silenzio

Artista riconosciuta da istituzioni italiane e venezolane, ora abbandonata da tutti a causa della fibromialgia, la malattia di cui soffriva Frida Kahlo. Alessandra pensa allo sciopero della fame e lancia un appello alla Collettività

di Monica Vistali

CARACAS – “Non sopporti la luce, i rumori. Il tuo corpo vive in un dolore senza sosta, e si blocca. Formicolii dovunque, tremori. Le gambe cedono, le mani non afferrano nulla… Un minimo sforzo ti costringe a letto per giorni. Ma non puoi dormire…”. A parlare è la pluripremiata “miglior artista emergente italo-venezolana” Alessandra De Marco, 34 anni, dal 2006 malata di fibromialgia e fatica cronica. Malattia neurologica estremamente debilitante che colpisce tra il 6 e il 7 per cento della popolazione, contro le direttive dell’Organizzazione Mondiale della Sanità la fibromialgia non ha il riconoscimento ufficiale come malattia invalidante ne in Italia ne in Venezuela. I costi per le cure sono quindi a carico dei malati che, per le loro condizioni, spesso non sono in grado di lavorare.
- É un circolo vizioso. Per curarmi ho bisogno di lavorare, ma nessuno mi assume finché non mi curo - racconta Alessandra -. Ora che ho trovato un buon farmaco, quindi, lancio un appello a tutta la comunità italiana perchè mi offra un qualsiasi lavoro che mi aiuti a coprire le spese mediche. Così posso rimettermi in piedi e dedicarmi al 100 per cento alla mia nuova occupazione.
Per superare una situazione di ingenti spese per visite specialistiche e farmaci, Alessandra chiede un aiuto per organizzare una subasta benefica delle sue opere fotografiche (durante i concorsi valutate BsF 10.000) e si rivolge anche al Consolato d’Italia:
- Finchè non è scoppiata la malattia, in molteplici occasioni ho affittato una stanza del mio appartamento a Chacao ai tirocinanti Mae in stage al Consolato e all’Ambasciata d’Italia. Ora sto un po’ meglio e rimetto a disposizione la mia casa: non chiedo soldi: solo la possibilità di una collaborazione che mi permetta di tornare in forma e trovarmi un buon lavoro.
Quella agli italovenezolani è l’ultima di una serie di richieste di aiuto gridate da Alessandra. E rimaste inascoltate.
- Ho provato di tutto - racconta l’artista -. Anche perchè a causa del mio lavoro free lance non ho un’assicurazione sanitaria. Ho bussato alla porta di Globovision, Canal 8, AvilaTv. Ho anche scritto al presidente Hugo Chàvez. Ma niente. Per alcuni sono nella famigerata ‘lista tascon’- continua - la lista nera di chi ha votato ‘no’. Per altri il mio caso è solo psicologico, si cura con l’agopuntura o non è degno di nota finchè non porto con me tante altre persone. Peccato che tanti malati come me sono bloccati sulla sedia a rotelle e non si possono muovere!
Alessandra oggi è sull’orlo. E annuncia: “Se io e tutti gli altri malati, vittime di maltrattamento, continueremo a restare indifferenti alle Istituzioni, inizierò lo sciopero della fame”.

L’odissea medica
Il farmaco magico di Alessandra si chiama Procaina, un anestetico endovenoso. Lo ha scoperto per caso dopo un’odissea medica fatta di infinite diagnosi e disparate terapie. Un labirinto che attraversano tutti i malati - racconta Alessandra - perché “a causa dei suoi sintomi variabili, diagnosticare la malattia non è semplice. Inoltre i medici non la trattano, non la conoscono e ti parlano di epilessia, cancro alle ossa, depressione, ti accusano di essere ipocondriaca…”.
Per la fibromialgia non esiste una soluzione definita. Quello che risulta benefico ad un paziente, è nocivo per un altro. Alessandra aveva provato ogni tipo di medicina e cura, finchè una clinica, dopo una serie di appuntamenti dal costo di BsF 550 l’uno, le aveva prescritto un trattamento da BsF 35mila: somma improponibile per una persona che non è in grado di lavorare. Poi un dottore, figlio di una malata di fibromilagia, le ha confidato l’esistenza della procaina: primo anestetico al mondo, classe 1905, senza effetti secondari, utilizzato anche per malattie degenerative come il parkinson. Relativamente economico: BsF 85 ogni siero, due volte a settimana.
- La procaina non è pubblicizzata - spiega Alessandra - perchè danneggerebbe gli interessi economici delle grandi cliniche private. In Venezuela sono solo cinque medici che la conoscono e la prescrivono. La salute è politicizzata, anche nelle cliniche.
La fibromialgia attacca il sistema immunitario ed endocrino. Anche se vittima di una malattia crudele, visto da fuori il malato sembra stare bene. E la gente non crede alle sue parole.
- Passavo giorni a letto senza la forza per muovermi. Non mi lavavo, non potevo camminare. Ho dovuto raparmi i capelli perchè anch’essi mi davano dolore. Adesso sto un po’ meglio solo grazie al siero che ogni tanto riesco a pagarmi. Ma la gente s’infastidisce e crede che sono semplicemente depressa: mio padre non crede alla mia malattia, una zia mi ha consigliato l’istituto psichiatrico, gli amici si sono stancati d’invitarmi ad uscire e non mi chiamano più. Dicono che non ho voglia di far niente... quando in realtà soffro terribilmente per non averne l’energia.

Sostegno
Alessandra ha formato un ‘gruppo’ sul noto social network Facebook per i malati di fibromialgia e fatica cronica. Auspica però la creazione di una fondazione di mutuo-aiuto: un gruppo d’appoggio all’interno del quale i malati possano trovare persone coscienti con cui parlare del proprio problema, in cui condividere esperienze, trovare consigli.
- In alcuni paesi del mondo, ma non in venezuela, è una realtà. C’è il gruppo degli alcolisti anonimi, dei malati di cancro... e quella dei fibromialgici. Un’associazione permetterebbe ai malati di avere più voce sul fronte del riconoscimento della malattia che nel 1994 fu accettata a livello internazionale con la cosiddetta “dichiarazione di Copenaghen” ma che ancora non è riconosciuta in Venezuela e in Italia come invalidante.

giovedì 18 febbraio 2010

La tragedia dell’Aquila in una mostra multimediale a Maracay

di Monica Vistali

CARACAS - Lo splendore de L’Aquila, una manciata di secondi di paura e poi la devastazione. È organizzata come un tragico spettacolo l’esposizione "Il Coraggio della speranza" voluta dal presidente del Consiglio Regionale d’Abruzzo, Nazario Pagano e dal 26 febbraio in mostra presso la Casa d’Italia di Maracay. Nella tre-giorni, più di cento scatti di quindici fotoreporter aquilani e due video omaggeranno una città d’arte e storia crollata a pezzi e messa a dura prova da un terremoto che, la notte del 6 aprile scorso, ha voluto tristemente ridisegnarne i contorni.
- Le fotografie immortalano la distruzione che regnava nei sei mesi che seguirono il sisma mentre i video sono diversi: il primo - spiega Gianfranco Di Giacomantonio, direttore di Abruzzo24ore.tv - è un documentario di Unovideo Srl che regala al pubblico le splendide immagini de L’Aquila prima del terremoto; il secondo, della nostra testata, si compone di immagini fortemente emotive e desolanti girate appena venti minuti dopo la seconda scossa, la più tragica. Il soundtrack è degli U2.
La mostra, organizzata da Mediagaterlatina, è un’iniziativa della "Fondazione Abruzzo Risorge", creata dopo il sisma dal presidente Pagano. La fondazione riparte aiuto a 360 gradi: si occupa della rinascita dell’economia aquilana, dell’assistenza socio-sanitaria, dell’offerta di beni e servizi, della riparazione degli edifici.
- A novembre, in occasione della visita della delegazione regionale, erano stati esposti alcuni materiali fotografici al Centro Italiano Venezolano di Caracas – spiega Di Giacomantonio – ma non erano stati pubblicizzati a dovere ne risaltati. Il presidente Pagano, quindi, ha pensato di integrare l’esposizione e renderla itinerante: dopo Maracay, la rassegna si sposterà a San Cristóbal, Puerto La Cruz e Barquisimeto.
I materiali fotografici sono oggi raccolti in un libro omonimo, "Il Coraggio della speranza".

giovedì 11 febbraio 2010

Rocco, le pagine di ieri per i bambini di oggi

Compositore e musicista, pittore, scrittore di preziosi racconti brevi. L’autodidatta Castiglia oggi non c’è più. Le istituzioni lo dimenticano, gli amici lo ricordano.

di Monica Vistali (pubblicato per la morte avvenuta il 10 giugno 2009)

CARACAS – Rocco Castiglia, il “Maestro” come molti lo chiamavano, adesso non lo troverete più in mezzo ai bambini a suonare la sua amata fisarmonica Delicia, nè al Caffè Lecuna a dipingere sui muri i volti di quelli che, come lui, avevano lasciato l’Italia tanti anni fa e che ora passavano le loro serate tra carte, canzoni partigiane e bicchieri di vino rosso. Non lo incontrerete neppure alle riunioni del Consejo Comunal de la Boleita Sur dove ad ottobre era stato eletto a pieni voti “Vocero Principal del Comitè de Educacion” o tra quelli che danno corpo alla Misiòn Cultura, che lo avevano nominato “Patrimonio Cultural della Parroquia”. E se, infine, non lo trovarete ospite alla prossima Fiera del Libro, lo troverete però tra le pagine del suo piccolo libro di “historietas”, dal titolo “Cuentos para niños de hoy de un niño de ayer”, che i suoi amici più cari si erano preoccupati di far pubblicare per procurargli quei pochi bolivares di cui aveva bisogno e che, fiero, non accettava da nessuna elemosina.
Perchè mercoledì scorso, Rocco Castiglia, classe 1929, è morto nella sua casa alla Boleita, un piccolo appartamento con carta da parati anni ’30 e mobilio antico, affollata di libri, spartiti, dischi di ogni genere. Si è spento dopo essersi lamentato a lungo per i problemi di respirazione che gli causavano i maleodoranti estrattori del ristorante sottocasa, “fonte di residui tossici e contaminazione ambientale” come denunciano gli amici di Rocco che ora stanno portando avanti il caso ma che già da molto tempo si erano attivati inutilmente per regalare all’artista una vecchiaia serena.
Ed ora, Rocco, è in un piccolo cimitero al centro di un barrio di Guarenas, l’unico che le sue finanze, fantasmi dimenticati da qualsiasi tipo di assistenza sociale o pensione, italiana o venezolana che sia, potessero regalargli.In Venezuela, con la chitarra in mano
Rocco, falegname di Tricarico, un piccolo paesino di Matera, arrivò in Venezuela poco più che ventenne. I suoi genitori l’avevano fatto imbarcare per allontanarlo dalla cognata con cui si era fidanzato. “Sono qui per sbaglio. A quei tempi ero giovane, mi sono fatto convincere... – si rammarica davanti alle telecamere degli amici Attilio Foliero e Mario Neri, che l’intervistarono qualche anno fa e che l’artista chiama “i suoi benefattori” omaggiandoli nel prologo del suo unico libro – e così mi sono ritrovato solo in una terra straniera. Avrei dovuto incontrare mio fratello ma, per problemi con la moglie, dovette ritornare in Italia proprio negli stessi giorni in cui attraversavo l’Oceano”.
I primi anni a Caracas, Rocco li trascorre nella zona di Sarria. Lavora come falegname, dà lezioni di musica e, con la piccola band “Luna Rossa”, formata con l’amico abruzzese Roberto, anima le feste, i locali, inaugura pizzerie italiane.
Con il tempo, la passione per le note, coltivata da autodidatta, lo trasformerà in compositore ed affermato insegnante di musica per molti giovani italo-venezolani, cui impartiva lezioni di fisarmonica, chitarra, cuatro, batteria, mandolino. Divenne anche organizzatore dell’allegro Festival Giovanile di musica, dove non era raro vederlo suonare un organo a quattro mani con un bambino o scatenarsi con l’amato mandolino che divertiva tanto i più piccoli.
Una vera passione, quella di Rocco. La sua casa, ora abbandonata, è ancora ricca di spartiti scritti da lui con il pennarellino nero. Tanti anche i fogliettini dove, senza errori, con la macchina da scrivere, aveva impresso le vecchie canzoni della sua terra, da “Sul ponte di Bassano” a “Quel mazzolin di fiori”, da “Addio mia bella addio” a “Sul cappello, la pennna nera”. La matita e il pennello
Quella per la musica non era l’unica passione di Rocco. Come raccontava nell’intervista rilasciata ai compagni de La Patria Grande, fin da piccolo si divertiva non solo a “chiamare qualche amichetto e dirigere un’orchestrina improvvisata”, ma anche a “scolpire figure con la neve” o disegnare il viso di Mussolini, “perchè a quei tempi c’era solo quello”.
“Mi ricordo quando scendeva al caffè Lecuna, punto di ritrovo per tanti suoi connazionali – ci confida un vicino di casa di Rocco, Leonardo – e passava la serata osservando e memorizzando i visi dei clienti che bevevano o giocavano a carte. Poi, quando il locale si svuotava e tutti se ne ritornavano a casa, si metteva a disegnare sui muri i loro visi con la perfezione di un vero artista. Un vero peccato che quei ritratti siano stati cancellati...”.
“Aveva dipinto anche un ritratto dell’indiano Jiddu Krishnamurti, lo scrittore di cui divorava ogni singola pagina – ricorda Mario Neri, del Circolo Gramsci di Caracas –. Ma – continua – leggeva di tutto, addirittura un giorno lo vidi immerso in “Così parlò Zaratustra”, del filosofo Nietzsche. Ed aveva fatto solo la quinta elementare!”.
Historietas
Il ritratto di Krishnamurti, insieme ad altri, oggi non si trova più in casa di Rocco.
“Non voleva l’elemosina di nessuno – ci confida l’amico Armando Corriere –. Così, per riuscire a fargli accettare quel poco denaro di cui aveva bisogno, inventavamo che avevamo venduto il quadro e che i soldi che gli davamo erano in realtà i proventi del suo lavoro”.
Erano tanti gli espedienti per non umiliare la dignità del vecchio artista quando gli acciacchi dell’età avevano assottigliato drasticamente le sue lezioni di musica e non riusciva più a mantenersi da solo. Il Consolato, più volte interpellato, non sembrava poter dare il sostegno necessario e a Rocco, che definiva la richiesta d’aiuto in quegli uffici “umiliante” e degradante”, come ricorda l’amico Armando, non piaceva sentirsi un “intruso mal accolto”, o un “pedante”.
E così, alla fine, erano i vicini di casa a battere la scopa sul pavimento per avvertirlo che c’era un piatto caldo pronto per lui, furono gli amici de La Patria Grande e del Circolo Gramsci ad autotassarsi per riuscire a pubblicare un piccolo collage dei suoi racconti sparsi, riuniti poi nell’opera “Cuentos para niños de hoy de un niño de ayer” per donargli i proventi del suo lavoro e “farlo sentire ancora importante”.
Anche se, nell’intervista sopracitata, Rocco non si definiva per nulla uno scrittore e dichiarava che solamente erano stati i ragazzi ad ispirarlo, i suoi racconti sono schegge inestimabili di valori e moralità. “Voleva fare del Paese una scuola – commenta Mario Neri – e criticava l’effetto alienante dei videogiochi, la competizione sempre presente nei giochi e che come la guerra, ‘premia i vincitori che trionfano’, la televisione spazzatura che, come si legge in un suo racconto, ‘dovrebbe essere utilizzata per formare cittadini liberi e non un gregge di consumatori irrazionali al servizio di un piccolo gruppo di antisociali’”. Idee che ricordano l’incanto magico del regista e scrittore bresciano Suilvano Agosti.
Grazie a quella piccola opera, che sarà regalata a tutti i bambini il prossimo ‘Dia del Ñino’, “perchè è giusto regalare la sua eredità più preziosa” come ci dice l’amico Armando, Rocco fu presente alle ultime due Fiere del Libro di Caracas, ospite dello stand del matematico umanista Giulio Santosuosso. Lì, il famoso caricaturista de L’Unità e di Liberazione, Enzo Apicella, appese un piccolo cartello con scritto: “Regalo una caricatura a chi compra questo libro”.
Cerchiamolo questo libro, e facciamo un regalo alla nostra anima spesso dimenticata.
“Hai ragione nipotino caro. Non ti ho mai parlato di quello che penso della scuola e del Ministero che erroneamente chiamano dell’Educazione. In primo luogo, il ministero non dovrebbe essere chiamato dell’Educazione bensì dell’Istruzione, perchè dalle scuole primarie all’università la persona s’istruisce e riceve il titolo di medico, avvocato o qualche altra specialità. Però quando il medico non lascia entrare un malato nella sua lussuosa clinica solo perchè non ha sufficiente denaro e l’avvocato difende un corrotto perchè gli offre molti soldi, dimostrano che s’istruirono, ma non si educarono”.

L’altra America, tra Messico e Venezuela storie dell’estremo Occidente

Dai blog di Piero Armenti e Antonio Pagliula è nato “L’altra America, tra Messico e Venezuela storie dell’estremo Occidente”, a cavallo di due rivoluzioni. Dai blog alle librerie, occhi italiani su “L’altra America”.

di Monica Vistali

CARACAS –Trasformare due blog italiani in un libro sull’America Latina. Questo l’esperimento pioneristico affrontato da Antonio Pagliula e Piero Armenti, i giovani autori di “L’altra America, tra Messico e Venezuela storie dell’estremo Occidente”, edito da Arcoiris Multimedia.
Trasformando gli articoli dei blog “Verosudamerica.com” e “Notizie da Caracas” (di Pagliula e Armenti) in pennellate capaci di rendere una sensazione ampia sulla situazione dei due paesi latinoamericani, la giovane casa editrice ha convertito “L’altra America” in un prodotto unico nel panorama editoriale italiano, che mai aveva osato trasladare alla carta stampata i materiali web.
“Il libro è la testimonianza di due rivoluzioni – spiega Piero Armenti -: quella del Venezuela di Chàvez e quella mediatica in cui si affaccia e si afferma il fenomeno ultramoderno dei blog, preziosi diari di bordo troppo spesso non aggiornati o addirittura abbandonati. Non a caso come prefazione a “L’altra America” c’è un mio testo sulla relazione tra mass media, giornalismo e blogsfera, dove fra l’altro il volume è stato più volte recensito e pubblicizzato”.
Tasselli di questo mosaico latinoamericano argomenti seri e meno seri: dalla política di Chàvez alle siliconate venezolane, dalla lotta di Calderòn contro il narcotraffico alla febbre porcina, passando per il colpo di stato in Honduras e il dramma che si consuma giornalmente alla frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti. Un “minestrone” a 360 gradi, come l’hanno definito gli autori, che chiude con un saggio di Armenti sulla storia di una centrale di polizia del noto barrio caraqueño ‘23 Enero’ che si trasforma in radio comunitaria, emblema e spunto per comporre un saggio sul Venezuela di Chàvez.
Espressivo il titolo del volume, che rimanda ad un’America latina che non si oppone all’occidente ma resta ai suoi margini. “Il Sud America non è l’India o il Giappone: è parte dell’occidente – spiega Armenti -, anche culturalmente. Basti pensare che il Libertador Simòn Bolívar studiava sui classici francesi…”.
Piero Armenti, che durante i quattro anni e mezzo vissuti a Caracas è stato giornalista de La Voce d’Italia, oggi racconta ai microfoni della sua vecchia testata il suo arrivo in Venezuela:
“I primi tempi avevo gli occhi ingenui, ma presto è arrivato il disincanto. Nonostante la rivoluzione credo che le cose non siano cambiate molto, la gente continua ad avere gli stessi problemi di sempre…”.
Se ne va l’ingenuità ma resta il rimpianto per quel rapporto con la vita che sanno avere i venezolani e che gli italiani hanno perso, “il giusto distacco, quella certa leggerezza”.
“In Italia – afferma Armenti – la gente è troppo preoccupata, appesantita, imborghesita e chiusa nel suo benessere. Il Venezuela ti dà la speranza di poter vivere stili di vita diversi e perciò continua ad essere parte di quel grande sogno che alimenta gli italiani e che si proietta in America Latina: il sogno di una vita più semplice in campo professionale e sentimentale, una fuga da se stessi”.
Piero Armenti è tornato da poco in Italia dopo un soggiorno nella Grande Mela, da dove aveva lanciato il il blog “Notizie da New York”.
“New York è la città che più mi ha ricordato Caracas – ci dice convinto -. Forse anche a causa di una grande comunità ispanica che ha saputo conquistare spazi importanti anche socioculturalmente, dal primo all’ultimo giorno sono stato convinto di essere tra quel delirio di folla e cemento che è la capitale venezolana, forse con qualche certezza di sicurezza in più”.

Gli italiani con la valigia


Storie di giovani che decidono: vado in Venezuela!

di Monica Vistali e Barbara Meo Evoli


CARACAS – L’Italia oggi non è solo un paese di immigrazione che accoglie stranieri alla ricerca di un futuro migliore. E’, ancora oggi, un paese da cui molti giovani e meno giovani se ne vanno alla ricerca di una vita più dignitosa.
Gli italiani non hanno emigrato solo nel dopoguerra. Continuano ancora oggi ad abbandonare un’Italia che sembra non offrire loro le condizioni di vita sperate e la possibilità di intraprendere e percorrere la propria strada, soprattutto dal punto di vista lavorativo. A riprova di questo, è sufficiente osservare il numero di neolaureati che nel Belpaese lavora nei call center o nei pub.
Il Venezuela sembra aver spalancato le porte a questi giovani pionieri stanchi di bussare a sempre nuove porte, stanchi di pregare per un impiego, stanchi di lavorare per “sopravvivere”. E’ un paese ricco di spazi, opportunità e mobilità, che accoglie tanti stranieri e tanti italiani delle nuove generazioni. E, secondo l’inchiesta svolta dalla Voce d’Italia, “gratifica e tratta bene” gli immigrati italiani arrivati negli ultimi dieci anni.
La ricetta del viver bene in Venezuela, secondo gli intervistati, è dimenticarsi del ‘chip’ mentale europeo e non abbandonarsi a continui paragoni con l’Italia. Bisogna pensare che questo è un ‘altro paese’ con i suoi pregi e difetti, anche se è viva l’influenza della numerosa comunità italiana. I venezolani, d’altronde, hanno un gran rispetto per gli italiani e l’italianità. Ma bisogna pensare che ormai non si è più ‘conquistadores’...
“L’Italia non offriva ciò che cercavo”
Ha lasciato Verona 9 anni fa ed è arrivato in Venezuela per caso. Vartan Puiguian, 31 anni, laureato in lingua e cultura italiana, è oggi il direttore didattico dell’Istituto italiano di cultura a Caracas.
“Vengo per un periodo: così pensavo al mio arrivo qui – dice Vartan viaggiando nei suoi ricordi – adesso non tornerei in Italia. Non vale la pena né per le relazioni sociali, né per quelle personali. L’Italia è ferma. Ogni volta che torno sta allo stesso punto. Non offre nulla. E’ tutto cristallizzato da decenni. Qui se uno vuole, riesce a fare ciò che si prefigge. Viene dato più spazio al cittadino”.
Tra i lati negativi di Caracas, Vartan ricorda lo stress estremo del vivere quotidiano. Ma da un altro lato ciò significa che “ogni piccolo risultato è una battaglia vinta, che da soddisfazione”.
“Voglio essere parte del processo bolivariano”
E’ a Caracas da un anno e convive con il proprio compagno italo-venezolano. Elvira Rizzo, 46 anni, laureata in filosofia, lavora come professoressa di italiano nel Colegio Bolívar y Garibaldi.
“Erano anni che mi interessavo al processo politico in Venezuela – afferma con decisione Elvira -. Sono venuta per imparare da questo paese. Il mio sogno è essere parte delle innovazioni politiche: essere dentro al movimento bolivariano, non restare da parte come spettatrice e cercare di portare la cultura dell’umanesimo qui”.
L’obiettivo di Elvira non è solo a senso unico: “Vorrei anche esportare i principi bolivariani in Italia, la cui società civile oggi vive nell’apatia”.
“L’Italia taglia le gambe all’inventiva”
E’ andato e venuto dall’Italia per diversi anni e adesso ha deciso di stabilirsi a Caracas. L.S., 45 anni, geometra, lavora nel settore della costruzione.
“Come libero professionista – racconta L.S. pronto a iniziare una nuova tappa della vita in Venezuela - mi sono stancato delle troppe burocrazie e delle leggi italiane che penalizzano la professione e l’inventiva. Come uomo, ed è il motivo più importante, sono qui per amore: mi sono sposato con una ragazza venezolana fantastica”.
Tra i lati positivi del Venezuela, L.S. ricorda “la simpatia, il rispetto, la tradizione e la cultura dei suoi cittadini. E il ritmo ‘latino’ che per alcuni aspetti è lento, per altri velocissimo ma, sicuramente, pieno di vita e felicità”.



Giovani imprenditori
Arrivati con l’intenzione di trascorrere un’avventurosa vacanza al mare, questi giovani imprenditori hanno trovato in Venezuela terreno fertile per i loro affari.
“Me ne sono andato perchè in Italia si lavora per sopravvivere”
Guglielmo Cruciani, 39 anni, di Roma, ha una laurea in Economia e commercio ed un Master in Commercio europeo. Arrivato in Venezuela come turista nel 1991, oggi è rappresentante delle società italiane, del settore salute, che esportano in Venezuela.
Guglielmo è molto critico nei confronti del suo paese natale perchè, come ci dice, “in Italia lavori per sopravvivere. Per vivere da solo, anche uno superstipendio da tremila euro non ti basta. Il Venezuela, invece, ti dà opportunità che non ci sono in Europa. Nonostante tutte le critiche, economicamente parlando è un paese florido, ricco di opportunità e di risorse”.
Guglielmo ha viaggiato molto, sia per motivi di studio e lavorativi, sia personali. “Mi è sempre piaciuto conoscere nuove realtà” racconta. “Da più di dieci anni non vivo in Italia. Ho passato Spagna, Praga, Londra, Miami e molti altri posti. Ora sono in Venezuela stabilmente da quattro anni. Quando sono arrivato la prima volta per trascorrere la vacanze ho conosciuto molte persone che mi sono diventate amiche. Con un amico venezolano ho poi deciso di aprire qui una linea di prodotti naturali, come il ginseng, perchè in Italia lavoravo nell’impresa di famiglia che si occupava di commercio all’ingrosso di prodotti chimici e farmaceutici. Il progetto è andato bene. Ora, grazie alla ricchezza di opportunità del Venezuela, sto facendo altre cose: oltre ad essere il rappresentante delle società italiane del settore salute esportatrici in Venezuela, mi occupo di compravendita di dollari ed euro. Un’attività che si sta trasformando pian piano in un lavoro”.
“Il Venezuela è un paese con potenzialità enormi”
Carlo Fermi, 29 anni, laureato in economia all’Università Bocconi, oggi è il responsabile della filiale in Venezuela dell’impresa FTC che esporta macchinari e materiali nel settore agroalimentare. E’ arrivato in Venezuela quattro anni fa per incontrarsi con un amico e visitare il paese.
“Sono sempre stato propenso a lasciare l’Italia – spiega Carlo con il suo accento nordico – e sono sempre stato in cerca di nuove esperienze all’estero, che reputo altamente formative sia dal punto di vista personale che professionale”.
Per quanto riguarda i lati positivi del paese che l’ha accolto, Carlo sottolinea che “il Venezuela è un paese dalle enorme potenzialitá, purtroppo poco sfruttate. Mi affascina l’attitudine sempre positiva della gente, ben distinta dal pessimismo che a volte domina la società dei paesi industrializzati”. Fra i negativi punta invece il dito sull’insicurezza, il poco rispetto dell’ambiente e, talvolta, la superficialità della gente.



Tirocinanti
Attratti dal misterioso processo bolivariano ed intenzionati a testare sulla propria pelle la vita nelle sedi consolari e diplomatiche: ecco i nuovi tirocinanti del progetto Ministero degli Affari Esteri – Consiglio delle Università italiane che arriveranno a Caracas.
“Quel che mi affascina del Venezuela è la situazione politico-sociale”
Alessia, laureata a pieni voti alla Sapienza di Roma, indirizzo Economia politica, vorrebbe lavorare nel settore delle relazioni internazionali e della cooperazione internazionale. Per realizzare il suo sogno decide di svolgere un tirocinio MAE-CRUI. Svolgerà lo stage all’ufficio politico dell’Ambasciata.
“Ero stata presa per New Delhi – racconta –- ma in seguito agli attentati terroristici tutti i tirocini per l'india sono stati annullati e tra i posti rimanenti ho optato per Caracas, meta che già inizialmente avevo preso in considerazione ma poi avevo scartato sotto l'insistenza dei miei genitori, spaventati ddlla microcriminalità diffusa nel Paese”.
Ma cosa di questa terra attrae tanto i giovanissimi? “Quel che mi affascina del Venezuela è la situazione politico-sociale nel suo complesso – risponde Alessia –. Sono molto curiosa ed impaziente di analizzarla con i miei occhi. Mi aspetto una buona dose di pericoli e contrattempi, folclore, simpatia, allegria, venerazione e odio verso Chavez”.
Interrogata sul suo futuro, Alessia ammicca: “Resterei in Venezuela a lavorare molto volentieri. Certo, se questa volta almeno un minimo mi pagassero!.
”Voglio vedere da vicino i successi della rivoluzione bolivariana”
Fabrizio è laureato con ottimi voti in scienze diplomatiche ed internazionali. Vorrebbe iniziare la carriera diplomatica e per questo, secondo lui, “vale la pena testare sulla propria pelle la vita nei consolati e ambasciate, anche se attraverso stage non retribuiti”.
“Ho scelto il Venezuela – racconta Fabrizio – perchè è uno dei paesi dell'America Latina più interessanti per molte questioni. Prima di tutto perchè volevo vedere da vicino i successi della rivoluzione bolivariana di Chavez, in particolar modo le missioni bolivariane, dato che i principali media europei ne parlano in modo negativo (Repubblica, Corriere della Sera, El Pais) e le maggiori informazioni provengono da media indipendenti. Ma non so cosa troverò. E’ difficile fare pronostici perchè le realtà latinoamericane sono sempre una sorpresa e continuano a stupirti fino alla fine”.



Insegnanti di lingua italiana
In Venezuela trovano il rispetto per il lavoratore e numerose gratificazioni. Oggi consigliano agli amici in Italia di partire e lasciarsi alle spalle un paese “immobile”.
“Qui si da valore alla conoscenza ed il sapere ha un riscontro nel mercato del lavoro”.
Fabio Serra, 28 anni, è originario di Napoli. Come ci racconta, ha trovato lavoro su internet rispondendo ad un’offerta riguardante l’insegnamento della lingua italiana. Avendo un post laurea di due anni proprio in “insegnamento della lingua italiana agli stranieri”, è stato accettato. Ed è subito partito.
“La mia esperienza è quella di un rapporto verticale tra domanda ed offerta di lavoro – ci dice Fabio –. Ma la maggior parte degli italiani arriva in Venezuela attraverso un rapporto orizzontale che tra noi migranti è detto “catena di Mc Donald’s”, ossia una rete di contatti tra conoscenti, amici....”.
Secondo Fabio, in Venezuela “ci sono tanti spazi vuoti dove potersi inserire” ed è per questo motivo che “tante persone, che nelle intenzioni iniziali volevano solo passare le vacanze al mare, si trovano alla fine nelle condizioni di fermarsi per lavorare” ci spiega. “Poi ci sono i freelance, i pionieri che con pochi contatti si buttano in questa realtà soprattutto per una sorta di ‘turismo politico’. E’ il caso degli studenti che vogliono fare ricerca sul campo, dei ricercatori, dei fotografi, dei documentaristi... Gli artisti e gli artigiani sono pochi perchè in generale – commenta – quello italiano è un ‘viaggiatore serio’. Basti pensare al flusso costante di tirocinanti MAE-CRUI destinati al Consolato o all’Ambasciata”.
Fabio nota come, più che l’imprenditoria, ciò che arriva in Venezuela dall’Italia sia “l’inteligencia” che qui trova spazio d’azione. “Come me – racconta – tutti gli italiani immigrati riscontrano in Venezuela un ‘bisogno di saperi’ ed un ‘confronto tra saperi’ impossibile da trovare in Italia. Qui si da valore alla conoscenza ed il sapere ha un riscontro nel mercato del lavoro. Inoltre le persone cambiano spesso impiego creando un reciclo continuo ed una sempre nuova offerta di opportunità. Nel Belpaese questo non accade: c’è solo immobilità e concorrenza”.
“Ero stanco di bussare alle porte, pregare per un impiego, lavorare gratis...”
Michele, un marchigiano di 29 anni, è laureato in filosofia. Deluso dalle condizioni lavorative italiane, volge lo sguardo all’estero e invia curriculum in tutto il mondo, compresi i paesi in lingua latina ed i paesi in via di sviluppo dell’Africa. “Gli unici paesi ad avermi risposto sono stati l’Iran ed il Venezuela – racconta – verso cui sono partito qualche mese fa per diventare insegnante di lingua italiana. Avevo molti amici con precedenti esperienze lavorative all’estero e in prima persona avevo provato l’esperienza dell’erasmus. Quindi si può dire che già possedevo la condizione mentale adatta per un ‘salto’ di questo tipo. Cosa che manca all’italiano in genere, troppo legato al territorio e timoroso del nuovo”.
Il Venezuela torna a far sorridere Michele: “Una volta qui in America Latina ho ricevuto numerose offerte di lavoro interessanti”, racconta. “Questo è molto gratificante per me in quanto, come molti giovani in Italia, ero stanco di bussare a tutte le porte, stanco di pregare per un impiego, stanco di lavorare gratis. Per questo consiglio a tutti i miei amici di andarsene dall’Italia”.
“Ho scelto il Venezuela perché é quello che mi offre le condizioni di lavoro piú vantaggiose”
Daniele Benzi, 32 anni, originario di Palermo, è impegnato con una tesi di dottorato sull’ALBA e dato che in Italia, come ci racconta, “i finanziamenti per la ricerca sono molto bassi”, è arrivato a Caracas per svolgere ricerca sul campo. Simultaneamente è insegnante di lingua italiana.
“Potevo scegliere di svolgere la mia ricerca in altri Paesi del Sud America, come Cuba o la Bolivia, ma ho scelto il Venezuela perché é quello che mi offre le condizioni di lavoro piú vantaggiose. Quando sono arrivato, giá sapevo che qui avrei tranquillamente trovato lavoro” ci dice entusiasta. “Ora insegno lingua italiana in un istituto privato e, a parte l’eccessiva problematicitá del trasporto, mi trovo benissimo. Resterei qui molto volentieri “.
“Qui in Venezuela c’è il rispetto del lavoratore”
Andrea, 33 anni, di Alessandria, ha una laurea in antropologia culturale. Oggi, oltre ad insegnare italiano, si occupa anche della creazione di documentari-cartoni animati per bambini relativi alla storia dell’arte, della filosofia, della danza.
“Ho sempre cercato di viaggiare il più possibile come ‘traveller’ per svolgere ricerche sul campo. Ho vissuto in Francia, Olanda, Spagna” racconta. “Poi un amico che viveva in Venezuela mi ha chiesto di collaborare con lui ad un progetto culturale che, purtroppo, non è andato in porto. Ma il Venezuela offre tante possibilità e così sono rimasto” commenta. “Qui in Venezuela c’è più libertà rispetto all’Italia, è possibile non essere schiavi del lavoro e ritagliare del tempo per se stessi. E, cosa più importante, c’è il rispetto del lavoratore”.

Centri Italo-venezolani: centri sociali o club d’elite?

Nati come luoghi di riunione di tutti gli italiani giunti in Venezuela in cerca di fortuna, e quindi multiclassisti, corrono il rischio di trasformarsi in clubs elitari

di Monica Vistali

CARACAS - Angelo Cristillo comprò la sua azione del Centro Italiano Venezolano di Caracas tanti anni fa. Gli costò 500 bolívares e la pagò a credito. Oggi questa può sembrare una cifra irrisoria, e certamente lo è, ma ieri rappresentava molto denaro. Da allora tante cose sono cambiate. I nostri emigranti, a quei tempi, sbarcavano a La Guaira con una valigia di nostalgia, pochi soldi e tanti, tantissimi sogni. I primi giorni erano assai duri, intrisi di tristezza e malinconia. Si era alla ricerca di un lavoro, di una occupazione che molti s’inventavano, ma soprattutto di qualche volto conosciuto, di qualche compaesano e aria, tanta aria di casa. Nel Civ, gli italiani di Caracas s’incontrarono l’un l’altro.
Cristillo continua a frequentare il nostro sodalizio ‘caraqueño’. Alle ragioni di una volta, però, oggi se ne aggiungono altre, frutto della nuova realtà del Paese: è un luogo elegante e tranquillo, niente rapine o sequestri, che ti offre piscine olimpioniche e la certezza di aver parcheggiato l’automobile in un posto sicuro.
- Passeggio – ci dice Cristillo – sereno, senza dovermi guardare alle spalle.
Gli fa eco Alessandro Sansone.
- Si viene al Civ e si cammina tranquilli – commenta -. In strada è una giungla.
E così, uno dopo l’altro, “gli italiani finiscono per rinchiudersi sempre più”, come racconta il tesoriere di Fedeciv, Junio Chiari, e trascorrono il tempo protetti dal vetro di quella campana dorata che è l’“Italo”, come viene chiamato il Civ dai più affezionati. Perchè in qualsiasi caso, interviene Giuliana Ferri, “Caracas non ti offre nulla: cosa vuoi fare – si chiede – se non vai al mare o nei centri commerciali, che fra l’altro sono diventati anch’essi pericolosi?”.
Dal canto suo Benito, con un forte accento campano sottolinea:
- Qui in Venezuela, oggi, la tua vita diventa un diamante che non puoi indossare e non sai dove nascondere. Nell’“Italo”, invece, puoi dare gas a quella Cadilac che per strada non puoi usare. Perchè fuori, il Latinoamerica è e resta sempre il Latinoamerica.
La soglia
All’interno dei trenta Centri Italiano-Venezolani e Case d’Italia sparsi sul territorio, da Caracas a Carupano, da Maracaibo a Merida, da El Tigre a Puerto Ordaz, “si ritrova il paesello e la lingua nativa, insomma una piccola Italia”, ci dice Benito dall’alto della terrazza dell’Edificio Sede del Civ della capitale, quello che ritaglia i suoi eventi e le sue cerimonie ergendosi maestoso sullo sfondo di un corollato di piccole luci e labirinti di scale. Il contrasto tra le due colline, la ricca e la povera, è netto. Quanti cognomi italiani non oltrepassano quella strada poco illuminata che separa l’“Italo” dal “barrio”?
Nei fatti, oggi, il Centro Italiano Venezolano aggrega solo una fetta della nostra comunità: un target ben delineato che non si mescola con quel 15 per cento (e forse più) di italiani residenti nella capitale che vivono nei quartieri poveri di Petare, la parrocchia con la percentuale più alta di connazionali secondo il censo dell’“Instituto Nacional de Estadìsticas” pubblicato nel 2005. A frequentare il Civ, quindi, sono probabilmente gli italiani e gli italo-venezolani più fortunati: quelli che, secondo il ministero degli Esteri, controllano un terzo di tutte le industrie locali, escludendo naturalmente quelle collegate al settore petrolifero. Un gruppo ben marcato e convinto, come Cristillo, che “più del novanta per cento degli italiani qui vive in condizione di agiatezza”.
Ma i nostri Centri Italo Venezolani, le nostre Case d’Italia non dovevano essere luoghi di riunione per tutti gli italiani? Il Civ di Caracas, nei sogni del suo fondatore Lorenzo Tomassi, non doveva essere espressione di una Collettività multiclassista? Sono domande alle quali oggi si preferisce non rispondere. O, chissà, si eludono perchè non si sa dare loro una risposta.
Denaro e Virtù
- II frequentatori del Civ appartengono ad una classe sociale medio-alta, è un luogo non alla portata di chiunque – afferma sicura Giuliana Ferri -. Inolte, le quote-extra sono sempre più frequenti e non tutti hanno le possibilità di far fronte alla spesa che rappresenta essere socio di uno dei nostri clubs. Non tutti hanno la possibilità di sostenere questi costi che crescono giorno dopo giorno e che incidono non più perifericamente nell’economia delle famiglie.
Ad esempio, a conti fatti, bolívar più bolívar meno, essere membri del Civ-Caracas richiede l’esborso mensile di circa 220 bolívares al mese; bolívares “fuertes”, ovviamente. E la cifra aumenta a 250 mila bolívares se ci si sposta a Maracaibo. Questo senza contare le quote-extra destinate a spese speciali, che possono trasformarsi anche in permanenti, come accadde in passato nel Civ di Caracas.
I giovani, in carriera ed in procinto di formare una famiglia, ed i pensionati sono le fasce più castigate. I primi, perchè non ricevono ancora uno stipendio che permetta l’aquisto di un’azione di un sodalizio e la spesa mensile che esso rappresenta, gli altri perchè con una pensione si possono fare solo miracoli. E questi non sempre comprendono il costo di gestione di un’azione di un club italo-venezolano.
Volente o nolente, c’è una barriera fissa. E così i meno abbienti devono accontentarsi di guardare dal basso le siepi fiorite, i saloni e tutte le infrastrutture sportive che, si sognava un tempo, dovevano essere accessibili a tutti gli italiani del Venezuela.
E i meno fortunati? “Non è stato fatto nulla – sostiene Ferri – per cercare di coinvolgerli…”.
E’ vero, così come lo è che non c’è Giunta Direttiva che, al momento di proporre la propria candidatura, non manifesti l’intenzione di trovare soluzioni eque che permettano di aprire il Civ alla Collettività. Promesse, sempre promesse. Tante e sicuramente in buona fede. D’altronde, di buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno. Al dunque, però, ci si dimentica del “futuro” della nostra Collettività e, quel che è più grave, del “passato”. Dei giovani e dei pionieri, di chi è chiamato a costruire e di chi, invece, ha già costruito tanto. Ci si dimentica anche di chi ha avuto meno fortuna e che andrebbe comunque messo in condizione di accedere ai nostri sodalizi.
- Degli indigenti – denuncia Pedro Paolucci, frequentatore della Casa d’Italia di Maracay – non si occupa nessuno. Ci s’interessa solo di chi ha denaro per fare donazioni o per comprare un’azione. Anche qui l’Italia è piena di ingiustizie.
Piccole oasi di tranquillità ma, non per questo, a salvo dalla crisi del Paese. Ecco, i nostri clubs soffrono anch’essi delle conseguenze delle decisioni, giuste o sbagliate, di chi ha in mano le redini del mondo.
- La ruota gira – spiega Franco Lualdi, presidente della Casa d’Italia di Caracas – e così anche i nostri club soffrono le conseguenze della crisi economica. Una ventina di centri sociali continuano le loro attività ma sono sempre più numerosi quelli che, come nel caso di Punto Fijo o Cumanà, hanno chiuso i battenti. Altri, ad esempio il Civ di El Tigre o quello di Ciudad Bolìvar, hanno fondato al loro interno scuole private, con cui potersi finanziare. Noi della Casa d’Italia riusciamo ancora a mettere tutto a disposizione gratuitamente ai nostri soci perchè, in quanto proprietari dell’edificio, affittiamo uffici.
Giovani e sportivi
Se gli adulti frequentano il Civ per i più disparati motivi, l’attenzione dei giovani è rivolta quasi esclusivamente alle strutture sportive.
- Certo che qui l’età media spaventa – ci dice Edoardo, 26 anni, entrando per la prima volta al Civ -. Ma non deve essere poi male venire ogni tanto: c’è la piscina, la palestra, spazi aperti…
Della stessa idea Maurizio Tagliatela che confessa di non frequentare il sodalizio ‘caraqueño’.
- Non sono socio… – aggiunge -, ma vorrei esserlo solo per utilizzare le istallazioni sportive.
Paolucci è più prudente. Ci dice:
- Sicuramente i giovani si recano ai nostri centri sociali per la pratica di qualche attività sportiva. Ma non si può fare di tutta l’erba un fascio. C’è anche chi ha altri interessi. C’è chi si dedica alla musica, chi al teatro, chi al ballo…
Lo sport, dobbiamo prenderne atto, è il vero punto di forza dei Centri Sociali italiani. Basti pensare ai “Giochi Sportivi Nazionali” dei nostri clubs, veri fiori all’occhiello della Collettività italo-venezolana organizzati ogni due anni da Fedeciv (la Federazione che raggruppa i sodalizi dal punto di vista sportivo). A questa ‘piccola Olimpiade’ partecipano dai tre ai quattro mila atleti. Se a questi, poi, sommiamo parenti, amici e conoscenti arriviamo anche a dieci mila persone in una sola città, dato che converte l’evento in una delle più importanti manifestazioni sportive del Paese.
Accando agli sportivi di Fedeciv, una frangia di giovani si dichiara assolutamente non attratta dalle realtà italiane in Venezuela. Paola, ad esempio, taglia corto ed afferma:
- Sono dall’altra parte del mondo per conoscere una realtà nuova, non per ritrovarne una vecchia che già conosco.
I tempi, si vede, sono cambiati e per gli italiani l’emigrazione può anche essere una scelta di vita più che una condizione imposta da situazioni economiche disastrose come quelle che circondavano i nostri pionieri nel dopoguerra. Si affronta e si vive diversamente. Si hanno meno paure, più curiosità.
Sempre polemica e assai schietta, Ferri espone il suo punto di vista:
- Io il Centro Italiano Venezolano di Caracas l’ho visto crescere. E posso dire che sono sempre meno i giovani che lo frequentano. Non si sentono rappresentati dalle Giunte Direttive che spesso, troppo sono inappropriate ed integrate da persone, a mio giudizio, non all’altezza della grande responsabilità che gli viene assegnata.
Separati nell’unione
C’è una solidarietà che nasce spontanea. E’ quella che germoglia dalla consapevolezza che tutti siamo emigrati o figli di emigrati.
- Qui siamo tutti amici – afferma Nicola Cicenia, presidente della Federazione delle Associazioni Italiano-venezolane. Poi, riferendosi all’unità che nasce trai connazionali all’interno dei centri sociali, aggiunge:
- Non c’è una separazione tra nord e sud, tipica della realtà italiana. Ci unisce un comune denominatore: aver vissuto l’emigrazione direttamente o di riflesso.
Anche così, però, esistono differenze. Basti pensare alle parole di Chiari che parla di un “micromondo creato da ognuno all’interno di quel piccolo mondo che è il Civ”.
Ferri corrobora quanto detto da Chiari.
- A me piace l’ambiente – spiega -, ma frequento chi dico io. Nel Civ c’è proprio di tutto: dalle signore eleganti, al signorotto colto o al cafone.
Certe differenze, anche assai sottili, si riflettono anche a livello gestionale.
- Manca la giusta coordinazione tra le vecchie e le nuove Giunte Direttive – denuncia Cicenia.
Una ulteriore barriera s’instaura tra chi vive nelle metropoli o no.
- I centri sociali della provincia risultano svantaggiati rispetto a quelli della capitale e delle grandi città: hanno difficoltà a reperire e scambiare notizie, richiedere ed ottenere servizi consolari – conclude Cicenia -. Si paventa il rischio di un sentimento d’abbandono e quindi la possibilità di dimenticare la nostra italianità.

'Tutto esaurito' per la Mostra di Cinema italiano

La Rassegna, che continuerà fino al 26 febbraio al Celarg, sta riscuotendo grande successo di pubblico. Luigina Peddi, direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura, spiega perché il cinema nostrano non ha ancora smesso di appassionare.
di Monica Vistali

CARACAS – Un ‘tutto esaurito’ che non risparmia nessuno. Giovedì sera, giorno dell’inaugurazione della Mostra di Cinema Italiano negli spazi del Celarg, erano tanti i cinefili che si sono dovuti accontentare di sorseggiare un buon vino invece che godersi il film “Manuale d’Amore”. Alcuni arrivavano dall’Ambasciata d’Italia, dall’Istituto per il Commercio Estero, dall’Istituto di Cultura Italiana. Altri erano semplici appassionati, potenziali spettatori vogliosi di godersi i capolavori della settima arte che hanno glorificato il Belpaese fin dagli esordi. Ma si sa, la legge è uguale per tutti.
Da giovedì, nulla è cambiato. La sala CineCelarg3 è costantemente affollata e, addirittura, durante le proiezioni vengono aggiunte delle sedie extra per coloro che non trovano posto in poltrona. Ma, nonostante l’escamotage, sono tanti quelli che non riescono a sedersi davanti allo schermo.
Un successo che è grande motivo d’orgoglio per gli organizzatori della rassegna, che hanno osato scelte azzardate nella scelta dei titoli mescolando il maestro Federico Fellini al meno celebre Kim Rossi Stewart, lo storico Dino Risi ai più recenti Gabriele Muccino e Ferzan Ozpetek.
- Il cinema italiano non è rimasto solo un’icona degli anni Cinquanta e Sessanta – ci spiega Luigina Peddi, direttrice dell’Istituto di Cultura Italiana – è vivo e pieno di protagonisti validi che intendiamo mostrare al pubblico. Non solo registi ma anche costumisti, scenografi, tecnici del suono che hanno contribuito e contribuiscono a trasformare i film in opere d’arte. La rassegna è un omaggio anche a loro.
La Mostra, con il suo doppio appuntamento giornaliero (proiezioni alle 17 e alle 19 fino al 26 febbraio), non vuole dare una panoramica meramente artistica del nostro cinema. Vuole essere, parallelamente, uno specchio della società italiana che cambia, degli italiani in perenne metamorfosi. Un cinema, quindi, specchio fedele e incorruttibile di quello che siamo, mezzo per “vedere la bellezza e la poesia della realtà, offrire spunti di riflessione” come ci dice Luigina Peddi.
- Quello italiano è un cinema che guarda fuori dalla finestra, per strada. Oggi molti film degli parlano di integrazione, tolleranza: temi che s’inseriscono nel nostro contesto storico e sociale. Lo stesso discorso vale per la pellicola di K.R.Stewart, che racconta la disgregazione delle famiglie di oggi da un punto di vista diverso, quello dell’uomo che viene abbandonato dalla donna che se ne va.
Il realismo resta il filo rosso che lega le opere in mostra al Celarg. Un cine-verità che ha fatto emozionare anche la direttrice dell’Istituto di cultura.
- Quando guardavo “Manuale d’Amore” mi riconoscevo nel vigile incattivito, nell’automobilista stressato. I personaggi stessi erano i miei vicini di casa. Noi italiani forse non siamo in grado di dirigere “Avatar” ma sicuramente siamo capaci di storie vere dove le persone si possono immedesimare.
Il cinema italiano continua ad appassionare. Si guarda, si riguarda.
- Nell’avanzata del cinema industriale l’Italia ha conservato delle nicchie di Autori con pochi soldi ma molte cose da dire. Valori diversi, chiavi di lettura lontane dal cinema commerciale che imperia nelle grandi multisale. I nostri film sono come libri classici che vanno letti e riletti, perché ogni volta trovi qualcosa di nuovo, un insegnamento che non avevi colto.
È così che il nostro cinema è diventato immortale.

Finanziaria: italo-venezolani tra rabbia e rassegnazione

di Monica Vistali

"Gli immigrati
che sbarcano in Italia
trattati meglio di noi"

CARACAS - "E' impossibile che ci lascino più fuori di quanto siamo" ci dice l'interprete Oriana Changon, 28 anni, commentando il programma della nuova Finanziaria che vede diminuire del quasi 70% gli apporti governativi destinati agli italiani all'estero.
Stranieri per il Venezuela e stranieri per l'Italia, quasi apolidi dimenticati verrebbe da dire, gli italo-venezolani non si stupiscono dei nuovi progetti del Governo, che sembrano solo confermare un senso di estraneità ed abbandono percepito da tempo. "Siamo stati dimenticati già molti anni fa dal nostro Paese, solo che adesso la cosa è ufficiale, ci stanno dimenticando legalmente" continua Oriana in tono freddo. Alle sue fanno eco le parole di tutti, da quelle della giovane studentessa Martina, convinta che quello che sta accadendo sia "un modo per dirci che non contiamo niente" a quelle del pensionato Flavio Andres Errante, di 64 anni, che commenta: "Io non ho ben capito una cosa: ma noi siamo italiani o no? Se siamo italiani per favore smettiamola di farci trattare male, di farci umiliare con questo atteggiamento da cittadini di serie b. La realtà è che agli italiani che vivono in patria non gliene frega niente di noi".
"Io ricevevo due pensioni - ci racconta Giuseppe Guglitta, originario di Potenza - quella italiana e quella venezolana, unite in una singola. Poi, senza motivo, sono iniziate ad arrivare lettere una dopo l'altra, le quali mi informavano che a causa di fan­tomatici redditi che possedevo la mia pensione sarebbe stata ridotta. E’ successo ben tre volte ed ora dalla mia pensione ricevo ben 180 euro in meno al mese. Nessuno ha saputo spiegarmi le motivazioni di queste riduzioni - si lamenta -. Cose simili accadono anche ad altre persone e credo che, tutti, ci sentiamo veramente abbandonati dall'Italia".
"Ritornare in Italia è una completa delusione - dichiara con convinzione il siciliano Salvatore, sbarcato in Venezuela nel lontano 1955 - perché ti senti chiamare migrante e nessuno accetta di considerarti cittadino a tutti gli effetti. Noi italiani all'estero siamo trattati come stranieri o apolidi. Eppure, se l'Italia oggi sta bene, è grazie a noi migranti della vecchia generazione che abbiamo mandato alla Madrepa­tria, che è la nostra famiglia, tutti i quei guadagni che gli hanno permesso di crescere". Radicata non solo in Salvatore ma nella maggior parte della gente comune la convinzione che sostenere i cittadini non residenti sia un "dovere morale" per un'Italia nata e cresciuta con i soldi guadagnati da quei viaggiatori avventurosi che prendevano il mare molti anni fa. Una sorta di controfavore. E' sufficiente osservare lo sguardo triste di Flavio Errante quando si rammarica per il fatto che "se lo sono dimenticati quello che abbiamo fatto per loro" o ascoltare le parole rabbiose di Miguelina Capaldo: "Per anni gli italiani che vivevano in Venezuela hanno mandato in Italia i soldi che guadagnavano con tanto sudore. Sono queste risorse che hanno permesso alla nostra terra di fiorire e svilupparsi. Per questo motivo quello che sta succedendo oggi è un vero e proprio abuso".
Più che dimenticati, gli italiani all'estero sono un gruppo estraneo e sconosciuto ai più. Ma, come spiega Flavio Errante "in fondo è normale, per-chè il nostro popolo non sa niente di noi. Pensiamo a Rai International o Rai Italia che la si voglia chiamare - continua -, cambia il nome ma il prodotto è uguale: inutile! Ci vuole un altro canale che faccia vedere la nostra realtà a chi non ha mai preso la famosa 'valigia di cartone'".
Dimenticati si, ma non del tutto. I cittadini d'oltremare sono bacini importanti nel periodo del voto. Come dice Salvatore, "la relazione tra il Governo ed i migranti è nel complesso pessima e lo stato italiano si fa vivo solo quando ci sono le elezioni: le giunte direttive organizzano le feste e credono di comprarci con quest'unica e triste presenza". Concorde con lui anche Flavio Errante: "Quando servono voti siamo italiani, ma quando chiediamo ciò che ci spetta ecco che siamo stranieri o un peso per il Paese. Questi tagli ci lasciano veramente a terra - prosegue -. E le nostre, già misere, pensioni? E le promesse, e poco mantenute, polizze sanitarie? Tutti specchietti per le allodole, che siamo sempre e solo noi!".
I figli disconosciuti dell'Italia si lamentano di essere stati poco o per nulla informati dalle fonti ufficiali riguardo ai tagli di quei finanziamenti che ritengono necessari per gli italo-venezolani. "Non sapevamo nulla di questi tagli perché nessuno ci ha detto nulla!" - racconta con rabbia Miguelina Capaldo -. Credo comunque che sia drammatico quello che l'Italia farà ai suoi cittadini, perché sono suoi cittadini, anche se residenti all'estero. E' crudele perché qui sono molti gli anziani che hanno bisogno di sussidi ed i giovani che hanno a cuore la loro italianità e vorrebbero continuare ad avere luoghi dove venga promossa questa cultura". "Sono italovenezolana dalla nascita - ci dice Oriana Changon - ed il tormentone degli ultimi 28 anni è stato 'non ci sono soldi'. E quindi - si domanda - che cosa vogliono tagliare? La Fame?". "Sono a conoscenza solo superficialmente dei tagli decisi dal Governo per la prossima Finanziaria - ci racconta Pasquale Cur­cio, che ha lasciato la provincia di Avellino ben 51 anni fa - perché nessuno ne parla ufficialmente, ma credo che quello che ci aspetta sia una vera tragedia perché sono tanti gli italiani qui in Venezuela che necessitano aiuti governativi". "E' importantissimo che l'Italia riconosca i suoi cittadini e li aiuti - ci dice Salvatore -. Gli italiani in Venezuela - ci spiega - hanno bisogno dei finanziamenti perché, se il 30% appartiene alla classe media ed il 10% sono plurimilionari (basti pensare che la tessera soci del Centro Italo Venezolano è carissima, ed ora ci sarà da pagare anche un'ulteriore quota per riparare i danni creati dalle piogge), per gli altri è davvero dura arrivare alla fine del mese in maniera dignitosa. Ma forse non dovremmo aspettarci molto da un paese che, al contrario del Venezuela, ha dimenticato cosa sia il rispetto. Il Venezuela, nonostante tutti i problemi che ha, comparato con l'Italia è un vero e proprio paradiso". Acuto il commento di Maria Elisa Pino: "Se davvero ci fosse stato bisogno di limitare le spese italiane sarebbe stato utile fare uno studio sociale ed individuare esattamente i cittadini che necessitano i sussidi, perché spesso sono aiutate persone che non hanno bisogno di alcun aiuto".
Con qualche eccezione, gli italovenezolani sembrano più rivolti al loro passato che orientati al loro presente e appaiono decisi a voler mantenere il ricordo ed il contatto con un Paese che costantemente sembra dimenticarli. Forse per questo senso di abbandono, in riferimento alla Finanziaria questa categoria di cittadini non accetta come scusante il periodo di crisi economica che sta passando l'Italia, ed il mondo, ancora meno quando secondo loro sembra dimostrarsi generosa con i migranti che sbarcano sulle sue coste: "Credo che l'Italia non abbia davvero bisogno di tagliare i fondi agli italiani all'estero - commenta Miguelina Capaldo - perché basterebbe limitare le risorse che vengono spese per gli stranieri che arrivano nel nostro Paese a rubare numerosi posti di lavoro ai nostri concittadini". Concorde Pasquale: "I tunisini, i marocchini e tutti gli africani che arrivano in Italia so­no trattati da re, sostenuti in tutti i modi possibili - commenta -. Non vedo quindi perché lo Stato italiano non debba aiutare i suoi cittadini che, in teoria, dovrebbero avere la precedenza anche se risiedono all'estero". Infine conclude: "Anche se l'Italia si trova in un periodo di crisi economica non credo che quello degli Italiani all'estero sia uno dei primi settori da falcidiare".
Nonostante da anni in una terra nuova, questi "quasi cittadini" italiani non sembrano volersi staccare dalla Madre­patria: "Io mi sento italiano al 100%. Per questo sono felice che mia figlia studi in Italia e che a mio figlio piaccia viaggiare spesso in quella terra meravigliosa anche se, purtroppo, il Consolato non vuole riconoscergli la cittadinanza italiana, che per me è importantissima" ci racconta Pasquale. "Io mi sento italiana - ci dice Maria Elisa Pino - e sono fiera di esserlo perché il nostro popolo ha fornito un apporto sostanziale al Venezuela, soprattutto dal punto di vista culturale. Ha insegnato molto in settori prima trattati superficialmente. Inoltre si è mescolato bene con il popolo sud­americano. Basti pensare alla cucina: ormai i sapori italiani e venezolani sono totalmente intrecciati. Anche perchè qui quasi tutti hanno in famiglia un italiano".
Anche chi non ha quasi mai visto l'Italia sente la necessità di coltivare una cultura che sente sua, come la sedicenne Martina: "Io non ho capito molto bene la situazione perché nessuno me l'ha spiegata chiaramente - racconta - ma sentendo i discorsi dei miei genitori ne ho intuito la gravità.
Soprattutto noi discendenti abbiamo bisogno delle attività che si organizzano nella collettività per mantenere il contatto con la terra dei nostri avi. Io, per esempio, ho imparato la lingua italiana studiando alla Codazzi e la tarantella al Club Italo.
Se questi tagli saranno davvero così pesanti, queste realtà si perderanno e con esse le nuove generazioni".
Una voce fuori dal coro è quella di Stefania Lavita, studentessa: "In Italia, con la legge 133 di Tremonti, sono stati tagliati i fondi all'istruzione pubblica. Altri tagli sono stati fatti ad ambiti fondamentali per tutti, come la sanità.
Per questo motivo non capisco le polemiche che si stanno facendo in relazione ai tagli dei fondi destinati agli italiani all'estero, che hanno sempre avuto numerose attenzioni.
Quando si tocca l'estero, verso cui da sempre sono diretti consistenti flussi monetari, si scatena lo scandalo soprattutto a causa del peso che hanno le circoscrizioni estere nel periodo delle elezioni. Questo accade specialmente in Venezuela dove il gruppo italiano è di dimensioni notevoli".

lunedì 8 febbraio 2010

Io, italiana di Petare

di Monica Vistali
CARACAS – All’interno del suo ‘rancho’ di Petare, la 69enne Maria Castelli conclude con un sorriso di rassegnazione il racconto della sua vita. Ed ammette: “Beh, non tutti gli emigranti ce l’hanno fatta”.
Le statistiche sembrano darle ragione. Secondo il censo dell’Ine-Venezuela pubblicato nel 2005, infatti, è Petare - tra le zone di Caracas di maggior degrado e pericolosità - il quartiere con la più alta concentrazione di connazionali, ben il 15 per cento. Ed è proprio Petare, agglomerato urbano ed umano che si snoda polveroso tra baracche fatiscenti e mercati improvvisati, il capolinea di Maria, che da 40 anni vive in uno dei suoi duemila ‘barrios’, Las Estrellas. Nel cimitero lì vicino ha seppellito due nipoti ed un figlio ventenne che - come tanti altri - avevano scelto la ‘via alegre’ della droga, come la chiama lei. Un vicolo chiuso, per tutti, da una pallottola. Di un secondo figlio conserva solo una fotografia ingiallita accanto ad una placca di metallo della bandiera italiana, sola superstite dopo uno schianto in moto.
- Forse non ero destinata a finire così - tentenna triste -. Ricordo i bagni al mare di Monterosso, di Rio Maggiore... Adesso avrei solo il desiderio di morire in Italia - ci confessa - ma i soldi non mi permettono neppure di sognarlo. Se non ho potuto andarci in tutti questi anni, non penso di poterlo fare ora... E poi, dove andrei? Lì non c’è più nulla per me.

Croci
Conversare con Maria Castelli è viaggiare nei porti liguri degli anni Cinquanta, nelle ville ‘bene’ del Nord Italia, nei salotti e nei collegi cattolici. Finchè i toni nostalgici lasciano spazio alla tristezza e lo scenario si sposta in America latina, nelle baraccopoli della povertà.
Era il 1955 quando Maria, studentessa di buona famiglia in un collegio religioso di Livorno, s’innamora di un militare della marina venezolana in sosta al porto.
- Avevo quattordici anni - ci racconta - quando ho lasciato la mia città. Avevo deciso di sposarmi ma mio padre, generale dell’aviazione, non ne voleva sapere. Per lui, quelle che andavano con i marinai non erano ragazze ‘serie’. Invece io ero innamorata, pronta per iniziare la mia favola.
Maria abbandona la rigidità familiare (“mio padre mi faceva tagliare le mele con forchetta e coltello” ci dice sorridendo) e sceglie di seguire il suo amore. I genitori la ripudiano - non la raggiungeranno nemmeno il giorno del suo matrimonio - ma lei è decisa e, accompagnata da due tenenti venezolani, con un aereo arriva a Caracas.
- Mi ricordo ragazza, spiando dal finestrino dell’automobile. Uno dopo l’altro, splendidi paesaggi si alternavano a quartieri eleganti. Poi pian piano la vista cambiava: baracche fatiscenti, povertà. Mi hanno lasciato al Barrio San Josè de Cotiza, in uno di quei ‘ranchos’ pericolanti. Ero ancora una bambina. È stato durissimo.
Il suo uomo era l’ultimo di undici fratelli. Maria ricorda il capofamiglia con il vizio della bottiglia, le botte, la povertà che si respirava in quella grande stanza dalle pareti scrostate dove tutti i vicini si ritrovavano per guardare l’unica tv della zona. E le chiacchere maligne: “Ecco l’italiana... si è sposata perchè pensava di trovare petrolio nel patio!”.
Maria smette di raccontare. Lancia solo qualche accenno, null’altro.
Con poche parole ti dice che si è separata dal marito - che le ha rubato i pochi risparmi - e che ha poi avuto tre figli con un altro uomo. Un altro sguardo vuoto. Riaffiorano le ore di attesa fuori dalle prigioni dov’era rinchiuso suo figlio, condannato a cinque anni per droga. Una ‘mariquera’, dice lei. Los Flores de Catia, Yare, Rodeo. “Era umiliante... e duro quando ti passava sotto il naso il poliziotto che spacciava...”.
Tante le ingiustizie, tanto il lavoro.
- Ho fatto l’hostess, la domestica in casa di ‘doña Blanca’, l’addetta in un’azienda di viti. A Petare ci sono quattro mense gratuite per bisognosi e in passato venivano regalati elettrodomestici a tutti quelli della zona. Ma io non credo nei contentini: ho visto molte donne mangiare a sbaffo, spendere i risparmi in birra e poi dormire tutto il giorno invece di lavorare... Non è colpa del Paese, il Venezuela resta divino. Ma, davvero, non immaginavo di dover lavorare tanto per ‘conseguirme la arepita’.
Oggi Maria Castelli stira due volte a settimana. Arrotonda con il ‘San’: un legale giro di prestiti fra persone di fiducia che poi pagano al gestore del denaro una percentuale. Un ‘giochetto’ da 2000 BsF l’anno, senza il tramite di nessuna banca.
- Certo non mi piango addosso. Ricordo quello che diceva la mia bisnonna: ‘Tutti vanno in piazza per scambiarsi le croci, ma poi ognuno torna sempre a casa con la sua’.

‘Ranchos’ e Consolati
Il ‘rancho’ di Maria non ha quel gusto tipicamente venezolano fatto di casette appese alle pareti e suppellettili vari. E’ di elegante stampo europeo, ben curato, con divani e tende sui toni del rosso e del nero.
- Ho saputo della morte di mio padre solo due anni dopo il decesso, quando dalle carte sono risultata unica erede e mi hanno contattato. Ma l’avvocato si è preso quasi tutto e con il denaro restante non potevo comprarmi un appartamento nuovo. Poi non riuscivo a pensarmi in un quartiere chic, così ho sistemato il mio ‘rancho’. Ora posso chiudere le finestre, immergermi nella mia casa e, per poco, dimenticarmi di Petare: della povertà, del rumore dei grilli che negli anni si è trasformato in boato di pistole, delle quattro casette che oggi sono diventate una baraccopoli.
Dimenticare per poco, certo. Finchè non devi recarti al Consolato per chiedere assistenza sociale, finchè ti accorgi che “la copertura sanitaria non basta”, finchè capisci - sotterrando i tuoi figli - che “qualcuno vale più da morto che da vivo”.
Maria, da quattro anni negli elenchi del Consolato, oggi beneficia dell’assicurazione sanitaria di Rescarven. Ma - anche se dovrebbe operarsi ad una gamba - non crede che chiederà il rinnovo dell’assicurazione perchè in qualsiasi caso, per quello di cui ha bisogno, questa “non è sufficiente”. - A causa delle brutte esperienze con mio padre e mio marito, non sopporto i militari per principio, quindi nemmeno il presidente Chávez. Ma con i Centri Diagnostici Integrati ‘l’ha proprio azzeccata’. Lì mi hanno regalato gli occhiali da vista, mi hanno curato un’intossicazione, mi hanno operato. La terapia è stata meravigliosa, i medici preparati ed ben educati. Al Consolato è più umiliante: quando chiedi un aiuto sembra di elemosinare... Purtoppo, sembra che gli italiani, nel possedere un po’ di autorità, diventino arroganti.
Maria non si risparmia in critiche.
- Elogio i Cdi ma credo che le risorse spese per i moduli ‘Barrio Adentro’ dovevano essere investite nella rinascita degli ospedali pubblici: quando ho dovuto andarci dovevo portarmi da casa i guanti in lattice e le garze...
Il processo bolivariano ha portato speranza e benefici ma la strada è ancora lunga. E tanti sono stanchi di aspettare. Così, come testimonia Maria, se “prima la gente ti sparava se parlavi male di Chàvez”, ora si è “liberi di mandare tutti i ‘rossi’ a quel paese”.

Italiani
Due italiane: Maria da Petare e Franca dal Junquito. Si parlano spesso al telefono e si raccontano le giornate, i pettegolezzi, i problemi.
- Anche la mia amica ha seriamente bisogno dell’aiuto del Consolato. Ma come fa ad andarci? Ha problemi di salute e fino a La Castellana il tragitto in taxi è troppo costoso. Io vado con i mezzi pubblici anche se qui a Petare non accettano il ‘carnet de la terzera edad’ e devi pagare. Sembra difficile da credere, ma spesso non si ha nemmeno quel solo bolivar per l’autobus, immaginiamoci per un taxi...
Maria ride di gusto. Fuori dai ‘club italo’, dalle associazioni, dalle poltrone di potere, dai salotti.
- No, non sono mai stata in quei posti lì. Io, gli unici italiani che frequento sono quelli venezolani come me!